" Vuoi giudicare del come senza capire il perché? Tu hai sempre fretta di emettere sentenze, Maria. (...) Non dire mai: di quest'acqua io non ne bevo. Potresti trovarti nella tinozza senza manco sapere come ci sei entrata."
In
Italia ci sono temi che balzano all'improvviso al centro
dell'attenzione: tutti ne parlano, tutti ne scrivono; poi,
altrettanto rapidamente, il grande fervore si sgonfia, il dibattito
si spegne non tanto perché il problema sia stato risolto, piuttosto
perché è stato accantonato, se non perfino sotterrato. Il fine vita
è uno di quei temi controversi che hanno avuto nel nostro bizzarro
paese un chiaro andamento "parabolico discendente", senza
mai approdare ad una definitiva soluzione legislativa, ma rimanendo
nel limbo della "non-norma", che mette a posto alcune
coscienze, ma di fatto lascia nella completa solitudine chi quel
problema lo vive sulla propria pelle.
Nel
2009, quando uscì il romanzo di Michela Murgia, "Accabadora",
l'Italia tutta era divisa in due fazioni dal triste caso di una
vicenda familiare, quella di Eluana Englaro, balzata agli onori delle
cronache, mentre avrebbe meritato un rispettoso silenzio e una
profonda riflessione, scevra da giudizi morali. Michela Murgia, studi
teologici alle spalle, scrisse a ridosso di quel periodo, un libro
destinato a vincere numerosi riconoscimenti, fra cui il Campiello, e
che si incentra sul tema del fine vita e della maternità elettiva, attraverso una vicenda
ambientata nella Sardegna degli anni cinquanta-sessanta del secolo
scorso.
Bonaria
Urrai, "vedova di un marito che non l'aveva mai sposata",
sceglie la piccola Maria, bocca di troppo della famiglia Listru, come
"fillus de anima". Bonaria, che non ha potuto diventare
madre perchè la guerra le ha portato via un fidanzato bello e molto
amato, cresce una figlia non sua con tutto l'affetto che dalla vera
madre Maria non ha mai avuto. Non è questo, però, l'unica strada
percorsa da Bonaria per essere madre. La prima vera madre di Maria è
infatti, anche, l'ultima madre di chi a Soreni, luogo immaginario
della Sardegna, si trova ad attraversare l'ultima fase della propria
vita nella sofferenza e nel dolore. Bonaria è una "accabadora",
colei che, mossa da pietà, accompagna i destini degli agonizzanti a
compimento. Non un assassina, ma una mano pietosa che, dietro
richiesta del malato e della sua famiglia, mette fine a sofferenze
inutilmente protratte. Una vera e propria "eutanasia ante
litteram"? Non proprio, perché i due atti sono solo in
apparenza simili.
L'eutanasia
si incentra sul singolo, è un atto di autodeterminazione che prende
origine da un "testamento biologico". L'accabadora, al
contrario, agisce non solo dietro richiesta dell'agonizzante, ma
anche della sua famiglia e, soprattutto, con l'autorizzazione e la
legittimazione della comunità. Per capire il libro e il significato
della presenza (fra l'altro dibattuta e da alcuni considerata al
confine fra realtà e leggenda) di tali figure nella Sardegna di metà
del secolo scorso, bisogna partire da qui. Occorre guardare la
vicenda narrata non con gli occhi contemporanei ma con quelli di un
mondo in cui la comunità prevaleva sul singolo, dove ciò che
capitava ad una persona, capitava in realtà a tutti. Non esisteva, o
era molto ridotta, l'ospedalizzazione, sia della nascita che della
malattia. I malati venivano presi in carico dalla famiglia e dalla
comunità. La comunità condivideva le gioie (feste di fidanzamento,
preparativi per matrimoni, nascite e riti collettivi come la
vendemmia) e i dolori (la malattia, la morte) e per questo era
"autorizzata" a prendere anche decisioni che oggi
sembrerebbero quantomeno "discutibili" ma che in quel
preciso momento storico erano assolutamente condivise. "L'accabadora
– ha dichiarato Michela Murgia in un'intervista andata in onda su
Radio Uno – sorge in un contesto di fortissime relazioni, di
corresponsabilità, di co-genitorialità. In questo contesto non
esiste l'autodeterminazione: nessuno si fa e si disfa da solo.
L'accabadora è la risposta collettiva ad una domanda che oggi
considereremmo solo individuale."
Nel
libro, l'unico vero atto di eutanasia è la morte di Nicola, che non
è un agonizzante, ma un giovane che non sa accettare la vita dopo la
malattia. Accogliendo la richiesta di Nicola, Bonaria va oltre il
"mandato" affidatole dalla comunità e ciò genererà una
serie di conseguenze a valanga: la fuga di Maria, scioccata dalla
scoperta della doppia vita della madre, dalla comunità di Soreni
verso la solitudine di Torino; il peso e la colpa che Bonaria
sconterà fino all'ultimo dei suoi giorni; la fine di un mondo
sardo e l'avvento di una nuova epoca.
La
scrittura di Michela Murgia ha la delicatezza e la lievità della
poesia. Memorabile è il tratteggio dei personaggi, fatto di poche,
precise parole sapientemente scelte, che rendono uniche persino le
figure minori, su cui spicca il ritratto "manzoniano" del
curato del paese e la figura aggraziata della maestra Luciana. E' un
libro denso di emozioni, commovente, capace di mettere in moto mille
riflessioni e nessun giudizio al tempo stesso. Non c'è una risposta
definitiva alla difficile questione del fine vita ma ogni lettore,
voltata l'ultima pagina, avrà sicuramente allargato il proprio
pensiero e messo da parte qualche certezza di troppo.
Ho avuto, oltre al piacere della lettura, anche quello dell'ascolto dell'audiolibro, in cui la stessa autrice, con la sua bella parlata, dà voce alle pagine da lei scritte e ricrea perfettamente le atmosfere di una Sardegna magica e arcaica. Lo consiglio di cuore. Cliccando qui potrete vedere il video del backstage che offre, inoltre, una riflessione della Murgia sugli audiolibri e sulla bellezza del racconto orale.
P.S.
P.S.
Questo
post è nato grazie alle riflessioni e agli spunti che mi sono stati suggeriti durante l'ultimo incontro del gruppo di
lettura della Biblioteca Gianni Rodari di Corciano, di cui ho parlato
in un recente post. Grazie per avere condiviso con me questa bellissima lettura e i molti pensieri che ne sono scaturiti!
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