sabato 30 marzo 2013

Una bambina e basta: quando gli aggettivi sono pericolosi


"Cara radio" comincia la letterina, "sono una bambina ebrea...". Mia madre legge e con un gran gesto come di teatro comincia a strappare il foglio scritto in pezzi sempre più piccoli. (...) Mamma non sembra arrabbiata, anzi, è quasi allegra e butta i pezzi del mio lavoro in aria come se fossero coriandoli di carnevale. La guardo irosa e offesa. Anche mamma mi guarda, ma con una specie di ilare indulgenza: "Non sei una bambina ebrea, hai capito? Hai capito? Sei una bambina. Una bambina e basta".
 
Corriere della Sera - 11 novembre 1938
Questo libriccino, dal titolo potente e di poco più di cento pagine, racconta uno dei momenti più bui e vergognosi della nostra storia, l'introduzione nel 1938 delle indegne leggi razziali.  La voce narrante è quella dell'autrice Lia Levi, che si fa piccola e ritorna la bambina che fu per raccontare, con candore e tenerezza, le terribili conseguenze di quelle norme insensate: la cacciata da scuola, la disoccupazione del padre, il trasferimento a Roma, la perdita di ogni elementare diritto, fino alla ricerca di un rifugio in cui nascondersi, concretizzatosi poi in un convento cattolico. Il pensiero corre subito ad un'altra ragazzina, anch'essa nascosta in quegli anni, anch'essa derubata della sua giovinezza, Anna Frank, che purtroppo ebbe un destino ben diverso e meno fortunato. Non c'è in questo libro l'angoscia che si prova leggendo il diario di Anna, dove la sua triste fine è sempre ben presente nella mente del lettore, eppure è impossibile non avvertire anche fra queste pagine un senso di smarrimento e di inquietudine penetrante. Gli occhi puri della bambina Lia vedono e raccontano tutto, pur comprendendo poco, e questo punto di vista "dal basso", innocente e interrogativo, acuisce l'indignazione del lettore adulto. Sono trascorsi oltre settant'anni, le leggi razziali sembrano un ricordo così lontano. Per non dimenticarle, hanno dovuto istituire una "Giornata della memoria", visto che il rischio dell'oblio e della sotto-considerazione è sempre dietro l'angolo. Il libro di Lia Levi non è solo un modo per dire "è successo questo", è anche uno spunto per chiederci "siamo davvero sicuri che non succeda anche oggi?". E' così difficile spogliare la parola bambino di ogni aggettivo: ci sono ovunque bambini extra-comunitari, bambini rom, bambini neri, bambini cinesi e non so quanti altre "tipologie" di bimbi, così come nel 1938 c'erano i bambini ebrei, mentre dovrebbero esserci soltanto bambini: bambini e basta.

domenica 24 marzo 2013

Accabadora: dalla Sardegna del secolo scorso una profonda riflessione sulla vita che finisce



" Vuoi giudicare del come senza capire il perché? Tu hai sempre fretta di emettere sentenze, Maria. (...) Non dire mai: di quest'acqua io non ne bevo. Potresti trovarti nella tinozza senza manco sapere come ci sei entrata." 

In Italia ci sono temi che balzano all'improvviso al centro dell'attenzione: tutti ne parlano, tutti ne scrivono; poi, altrettanto rapidamente, il grande fervore si sgonfia, il dibattito si spegne non tanto perché il problema sia stato risolto, piuttosto perché è stato accantonato, se non perfino sotterrato. Il fine vita è uno di quei temi controversi che hanno avuto nel nostro bizzarro paese un chiaro andamento "parabolico discendente", senza mai approdare ad una definitiva soluzione legislativa, ma rimanendo nel limbo della "non-norma", che mette a posto alcune coscienze, ma di fatto lascia nella completa solitudine chi quel problema lo vive sulla propria pelle.

Nel 2009, quando uscì il romanzo di Michela Murgia, "Accabadora", l'Italia tutta era divisa in due fazioni dal triste caso di una vicenda familiare, quella di Eluana Englaro, balzata agli onori delle cronache, mentre avrebbe meritato un rispettoso silenzio e una profonda riflessione, scevra da giudizi morali. Michela Murgia, studi teologici alle spalle, scrisse a ridosso di quel periodo, un libro destinato a vincere numerosi riconoscimenti, fra cui il Campiello, e che si incentra sul tema del fine vita e della maternità elettiva, attraverso una vicenda ambientata nella Sardegna degli anni cinquanta-sessanta del secolo scorso.

Bonaria Urrai, "vedova di un marito che non l'aveva mai sposata", sceglie la piccola Maria, bocca di troppo della famiglia Listru, come "fillus de anima". Bonaria, che non ha potuto diventare madre perchè la guerra le ha portato via un fidanzato bello e molto amato, cresce una figlia non sua con tutto l'affetto che dalla vera madre Maria non ha mai avuto. Non è questo, però, l'unica strada percorsa da Bonaria per essere madre. La prima vera madre di Maria è infatti, anche, l'ultima madre di chi a Soreni, luogo immaginario della Sardegna, si trova ad attraversare l'ultima fase della propria vita nella sofferenza e nel dolore. Bonaria è una "accabadora", colei che, mossa da pietà, accompagna i destini degli agonizzanti a compimento. Non un assassina, ma una mano pietosa che, dietro richiesta del malato e della sua famiglia, mette fine a sofferenze inutilmente protratte. Una vera e propria "eutanasia ante litteram"? Non proprio, perché i due atti sono solo in apparenza simili.

L'eutanasia si incentra sul singolo, è un atto di autodeterminazione che prende origine da un "testamento biologico". L'accabadora, al contrario, agisce non solo dietro richiesta dell'agonizzante, ma anche della sua famiglia e, soprattutto, con l'autorizzazione e la legittimazione della comunità. Per capire il libro e il significato della presenza (fra l'altro dibattuta e da alcuni considerata al confine fra realtà e leggenda) di tali figure nella Sardegna di metà del secolo scorso, bisogna partire da qui. Occorre guardare la vicenda narrata non con gli occhi contemporanei ma con quelli di un mondo in cui la comunità prevaleva sul singolo, dove ciò che capitava ad una persona, capitava in realtà a tutti. Non esisteva, o era molto ridotta, l'ospedalizzazione, sia della nascita che della malattia. I malati venivano presi in carico dalla famiglia e dalla comunità. La comunità condivideva le gioie (feste di fidanzamento, preparativi per matrimoni, nascite e riti collettivi come la vendemmia) e i dolori (la malattia, la morte) e per questo era "autorizzata" a prendere anche decisioni che oggi sembrerebbero quantomeno "discutibili" ma che in quel preciso momento storico erano assolutamente condivise. "L'accabadora – ha dichiarato Michela Murgia in un'intervista andata in onda su Radio Uno – sorge in un contesto di fortissime relazioni, di corresponsabilità, di co-genitorialità. In questo contesto non esiste l'autodeterminazione: nessuno si fa e si disfa da solo. L'accabadora è la risposta collettiva ad una domanda che oggi considereremmo solo individuale."

Nel libro, l'unico vero atto di eutanasia è la morte di Nicola, che non è un agonizzante, ma un giovane che non sa accettare la vita dopo la malattia. Accogliendo la richiesta di Nicola, Bonaria va oltre il "mandato" affidatole dalla comunità e ciò genererà una serie di conseguenze a valanga: la fuga di Maria, scioccata dalla scoperta della doppia vita della madre, dalla comunità di Soreni verso la solitudine di Torino; il peso e la colpa che Bonaria sconterà fino all'ultimo dei suoi giorni; la fine di un mondo sardo e l'avvento di una nuova epoca.

La scrittura di Michela Murgia ha la delicatezza e la lievità della poesia. Memorabile è il tratteggio dei personaggi, fatto di poche, precise parole sapientemente scelte, che rendono uniche persino le figure minori, su cui spicca il ritratto "manzoniano" del curato del paese e la figura aggraziata della maestra Luciana. E' un libro denso di emozioni, commovente, capace di mettere in moto mille riflessioni e nessun giudizio al tempo stesso. Non c'è una risposta definitiva alla difficile questione del fine vita ma ogni lettore, voltata l'ultima pagina, avrà sicuramente allargato il proprio pensiero e messo da parte qualche certezza di troppo. 


Ho avuto, oltre al piacere della lettura, anche quello dell'ascolto dell'audiolibro, in cui la stessa autrice, con la sua bella parlata, dà voce alle pagine da lei scritte e ricrea perfettamente le atmosfere di una Sardegna magica e arcaica. Lo consiglio di cuore. Cliccando qui potrete vedere il video del backstage che offre, inoltre, una riflessione della Murgia sugli audiolibri e sulla bellezza del racconto orale. 

P.S.
Questo post è nato grazie alle riflessioni e agli spunti che mi sono stati suggeriti durante l'ultimo incontro del gruppo di lettura della Biblioteca Gianni Rodari di Corciano, di cui ho parlato in un recente post. Grazie per avere condiviso con me questa bellissima lettura e i molti pensieri che ne sono scaturiti!


     
     

     

     


mercoledì 20 marzo 2013

Alla ricerca dei propri simili: il mio primo gruppo di lettura


Marilyn Monroe legge in solitudine
Il lettore è un essere profondamente solo. E' solo perchè l'atto del leggere lo porta a chiudersi nel microcosmo abitato da se stesso e dal libro. E' solo quando, finito un libro, muore dalla voglia di parlarne con un amico e non c'è nessuno con cui avere un minimo di scambio (mentre trovi sempre chi ha visto il tale film o ascoltato la tale canzone). E' solo perchè statisticamente quelli che leggono sono pochi e in via di estinzione.
Da tempo riflettevo e soffrivo per tutte queste considerazioni, quando mi sono imbattuta in un volantino che pubblicizzava un paio di gruppi di lettura, di cui uno serale e che proponeva il libro di un'autrice. Ho trovato molto potente l'immagine di un certo numero di persone che nella stessa città compravano lo stesso libro, sfogliavano le stesse pagine, meditavano sugli stessi spunti, come se tutte queste energie canalizzate in una precisa direzione avessero un effetto dirompente e amplificante sulle facoltà e la percezione di ciascun lettore. Poi queste visioni idilliache sono state soppiantate da altre meno esaltanti: secondo me non viene nessuno... saremo al più io e il moderatore... capirai in questa città chi vuoi che legga... Nel frattempo compro il libro, lo leggo con passione, lo riascolto in audiolibro, ci rimugino sopra come sono solita fare durante e dopo la lettura, mi documento un po' su internet e infine arriva il fatidico giorno dell'incontro del gruppo. Parto poco convinta e invece... sorpresa!
 
 
Un gruppo di lettura cui mi piacerebbe unirmi!!
Ci sono oltre venti persone e il cerchio iniziale già predisposto di una decina di sedie si allarga a vista d'occhio (un po', a dire il vero, se ne stupiscono anche gli organizzatori!). Tutti hanno in mano una copia del libro, le prime edizioni con la copertina rigida o quelle più recenti in brossura. Osservo come ogni lettore tiene il proprio libro fra le mani (chi lo abbraccia stretto, chi lo sfiora appena, chi ci tamburella sopra le dita) e penso che sarebbe interessante fare una foto di questo particolare, perchè sarebbero venti foto diverse. Via via che le sedie si riempono, crolla un altro pregiudizio e cioè che sarebbero venute solo donne: qualche sparuto rappresentante maschile è comunque presente. Anche le età spaziano e ciò mi conforta, sebbene devo osservare che la lettura non sembrerebbe propriamente un passatempo di molti miei coetanei. I volti, in compenso, sono interessanti, come immagino debbano diventare con gli anni quelli dei lettori accaniti. La serata si preannuncia stimolante e pronta a sconfiggere ogni funesta aspettativa. E in effetti, sarà proprio così. Me ne vado con un sorriso, già segnato in agenda il prossimo appuntamento e penso che sì, sono davvero felice: ho, per una volta almeno, sconfitto la solitudine del lettore e trovato finalmente un posto abitato dai miei simili!

venerdì 8 marzo 2013

Sull'otto marzo, Ginger Rogers in biblioteca e altre divagazioni

Come gran parte delle feste che si incontrano nel calendario, l'otto marzo nasce in un modo e finisce in un altro. Questo giorno, che poi non è tanto una festa ma soprattutto una commemorazione, è svilito di ogni significato se ridotto ad uno scambio di mimose e all'uscita fra amiche vocianti, ma diventa un'autoesaltazione quando leggo tutte le solite frasi su quanto siamo forti, brave e coraggiose. Sarà anche vero, ma serve a poco se ce lo diciamo fra di noi, mentre sarebbe molto più significativo se venisse riconosciuto da qualche maschietto in più, che magari avesse anche il coraggio di promuoverci sul lavoro sebbene non siamo state "carine" con lui. Perchè ancora di strada da fare ce n'è tanta e capita che mi domandi se tutta questa emancipazione c'è stata davvero e se alla fine c'è convenuta. Questa è una provocazione, è ovvio, ma a volte la libertà e i diritti conquistati si sono trasformati in tanta fatica in più.
 
Biblioteca Gianni Rodari - Corciano (PG)
Oggi sono per la prima volta tornata in biblioteca dopo non so quanti anni, sicuramente più di dieci. Mea culpa, mea culpa. Sono una grande frequentatrice di librerie mentre le biblioteche le ho frequentate soprattutto per studio. Forse perchè il libro deve essere "mio" e non amo molto neanche farmi prestare i libri dagli amici. E se poi il libro mi piace? Devo comprarne una copia, ma poi non è quella che ho letto la prima volta, sottolineato, sgualcito, non sarebbe il mio libro. Comunque, oggi mi sono decisa. La biblioteca scelta è piccina piccina, una casetta su più piani, con il soffitto di travi a vista. Sembra che manchi solo il camino e un angolo dove preparare una tazza di the. E' proprio dietro il posto dove lavoro: come, a pochi metri da me, c'è questo posto meraviglioso che pullula di libri? Il nome anche mi attira, "Biblioteca Gianni Rodari". La memoria corre subito alle mie prime letture, all'incanto delle "Favole al telefono" e delle "Filastrocche in cielo e in terra" che, non mi vergogno a confessare, ho ricomprato da grande. L'impatto è di quelli da colpo di fulmine: intere pareti di libri che puoi prendere e sfogliare e portare a casa o fermarti a leggere. Ne prendo qualcuno in mano ed è come ritrovare un vecchio amico. Molte copie sono sgualcite ed è un'emozione nuova, tenere fra le mani un libro che molti altri hanno sfogliato prima di te e, si spera, amato.
 
Ginger Rogers e Fred Astaire
Per celebrare l'8 marzo in biblioteca c'è un incontro dal titolo curioso, "In equilibrio sui tacchi a spillo". E già, perchè noi donne siamo delle magnifiche equilibriste, pronte a mettere insieme in 24 ore una sfilza di impegni e di incastri.
La relatrice proietta l'immagine di Ginger Rogers e di Fred Astaire ed osserva: lei faceva i suoi identici passi, ma li faceva sui tacchi! Come dire, non solo possiamo fare tutto quello che fanno gli uomini, ma possiamo farlo mettendoci anche una difficoltà in più, i tacchi appunto. Il tacco è però anche il simbolo della femminilità, ergo possiamo fare le stesse cose degli uomini ma alla nostra maniera. Vengono proiettate foto di donne che secondo una micro indagine della relatrice sono ancora oggi fonte di ispirazione. Ci sono scienziate, artiste, donne di fede, politiche, sportive e, naturalmente, scrittrici. Poi viene illustrato un progetto che verrà portato avanti proprio in queste sale, la palestra rosa. Che non è un posto per fare ginnastica senza uomini attorno, quanto una scuola di scoperta e di crescita, di consapevolezza, di comunicazione e gestione dei conflitti, di gestione dello stress e dell'ansia, di autodifesa. Lo scopo non è quello di armarci contro l'uomo ma di "attrezzarsi" per evitare di rimanere vittima da un lato della violenza altrui, fisica e psicologica, sempre più diffusa verso noi donne, dall'altro della violenza che sappiamo autoinfliggerci quando non siamo capaci di dire no, quando ci facciamo fagocitare dallo stress, dall'ansia quotidiana, dall'infelicità che andiamo cercando con il nostro modo di vivere "sbagliato".
 
A tal proposito, mi torna in mente Oriana Fallaci che nel finale de "Il sesso inutile – viaggio intorno alla donna" scriveva: "Da un capo all'altro della terra le donne vivono in modo sbagliato: o segregate come bestie in uno zoo, guardando il cielo e la gente da un lenzuolo che le avvolge come il sudario avvolge il cadavere, o scatenate come guerrieri ambiziosi. (...) Tutte sono più o meno consapevolmente lanciate verso qualcosa che non può provocare che dolore, un dolore sempre più complicato (...). Girando come Caino intorno alla luna, ero tornata in ogni senso al medesimo punto da cui ero partita. E in quel girare avevo seguito la marcia delle donne intorno a una cupa, stupidissima infelicità". Era il 1961, ma potrebbe essere anche oggi.
Basta: ho divagato dal filo conduttore del blog, o forse no, ma oggi non potevo parlare di un libro specifico perchè oggi è il giorno di tutte coloro che hanno ispirato ogni post di questo cyberspazio e a tutte loro, nessuna esclusa, va il mio grazie incondizionato per le emozioni che mi hanno regalato, per quelle in agguato dentro ogni nuovo libro, per tutto ciò che ogni donna con una penna in mano ha fatto, anche incosapevolmente, per l'emancipazione, la libertà e la crescita di ogni altra donna.