venerdì 24 febbraio 2012

Venivamo tutte per mare: il mormorio delle donne giapponesi in viaggio verso l'America



"Sulla nave non potevamo immaginare che avremmo sognato nostra figlia ogni notte fno al giorno della nostra morte, e che nel sogno avrebbe sempre avuto tre anni come l'ultima volta che l'avevamo vista: una figura minuscola con un kimono rosso scuro accovacciata ai margini di una pozzanghera, incantata davanti a un'ape morta che galleggiava sull'acqua."
Fra tutti i paesi orientali, il Giappone ha sempre esercitato su di me un fascino magnetico. Naturale, quindi, leggere i libri che ne parlano. Così è avvenuto per questo poetico romanzo il cui titolo originale “The Buddha in the Attic” è stato curiosamente tradotto in “Venivamo tutte per mare”. E’ probabile che il titolo originale non sia stato considerato sufficientemente evocativo per catturare il lettore nostrano, al quale il nome dell’autrice, Julie Otsuka, suona come quello di un’ esordiente. Negli Stati Uniti, invece, “Buddha in the Attic” è considerato il seguito ideale del primo romanzo dell'autrice, uscito nel 2002, “When the Emperor Was Divine”, che è stato un autentico best seller. 

La traduzione del titolo, ad ogni modo, ha il merito di focalizzare subito l’attenzione su quelle che sono le incredibili protagoniste del libro, le donne Giapponesi che all’inizio del Novecento attraversarono l’oceano per raggiungere gli Stati Uniti, attratte, come ogni storia di emigrazione, dal miraggio di una vita migliore. Era la pratica del “matrimonio attraverso la fotografia” che rimase in vigore fino al 1921 quando, in base al Ladies’ Agreement stipulato con gli Stati Uniti, il Giappone mise fine all’emigrazione delle sue donne, destinate a diventare le spose dei compatrioti che le avevano precedute. Fino ad allora, però, la partenza delle giovani giapponesi venne incoraggiata anche da un’intensa opera di propaganda, e accettata con remissione dalle stesse donne, salvo poi scontrarsi, una volta a terra, con una realtà ben lontana da quanto promesso. 

La potenza e il fascino del libro risiedono nell'insolita ma centratissima scelta dell’autrice di non dare voce a una singola donna nello specifico, ma di lasciar parlare tutte le donne insieme. Così nel romanzo non c’è una sola protagonista, ma la piccola storia di ciascuna donna si fonde con quella di un'altra, confluendo in un percorso di vita comune. Nelle nostre orecchie si affollano potenti le voci di una moltitudine di anime i cui frammenti di storie si stratificano, pagina dopo pagina, come in un collage. Le osserviamo durante la stremante traversata dell’oceano; scopriamo la loro delusione quando si renderanno conto che ad aspettarle sono sì gli uomini delle fotografie, ma invecchiati di almeno 20 anni; avvertiamo tutta la loro fatica nei campi, mentre raccolgono frutta e verdura, perché i mariti hanno mentito non solo sull'età ma anche sulla loro condizione sociale ed economica; le osserviamo diventare madri nei modi più disparati e guardiamo i loro figli crescere e diventare cittadini americani. 

Tutto precipita il 7 dicembre 1941, quando, in seguito all’attacco di Pearl Harbor, i Giapponesi diventano "i traditori" e un profondo odio, culminato con l’Executive Order 9066, li costringe ad abbandonare case e attività per trasferirsi in campi di internamento, sperduti in luoghi deserti. Qui 120.000 Giapponesi rimarranno in condizioni di disagio e precarietà per circa 2 anni, non trovando poi più nulla al loro ritorno. E a questo punto, il mormorio delle voci si attenua fino a spegnersi: i Giapponesi sono spariti dalle città e nell’ultimo capitolo cala prepotente il silenzio.

Un ottimo libro, consigliato di cuore, dove l'approfondita ricerca storica dell'autrice, che ha riportato alla luce una pagina di storia strappata e accartocciata, si è concretizzata in immagini suggestive, di autentica e delicata poesia, in cui la parola si fa emozione viva.

martedì 21 febbraio 2012

Cime Tempestose: il primo libro del blog




"I miei dolori in questo mondo sono stati i dolori di Heathcliff, e li ho osservati e patiti tutti quanti fin dal principio; il mio più grande pensiero nella vita è lui. (...) Il mio amore per Linton è come il fogliame nei boschi: il tempo lo cambierà, lo so bene, come l'inverno cambia gli alberi. Il mio amore per Heathcliff somiglia alle rocce eterne sotto terra: ne viene poco piacere visibile, ma è necessario. Nelly, io sono Heathcliff! Lui è sempre, sempre nei miei pensieri." 

Benvenuti nel primo post del blog! Non sapevo proprio da dove cominciare e allora ho pensato a un super classico, “Cime tempestose”, che da molto tempo desideravo leggere. Ho acquistato la bella traduzione di Margherita Giacobino, edizione Oscar Mondadori, sorvolando sul pessimo gusto di chi ha deciso di imprimere in copertina la frase “I libri preferiti di Bella ed Edward” e mi sono immersa nella lettura dei suoi 34 capitoli.

Il nome della sua famosissima autrice Emily Brontë campeggia sopra al titolo, ma se fossi una lettrice vittoriana del 1847 ed avessi acquistato la prima edizione del libro, sulla copertina avrei trovato il nome di un certo signor Ellis Bell. Nascere donna nell’Inghilterra dei primi dell’Ottocento, non doveva offrire molte opportunità di realizzazione personale, a parte quella di diventare un perfetto angelo del focolare, e questo nonostante un padre reverendo, che impartì alle proprie figlie un’educazione di gran lunga superiore a quella ricevuta mediamente dalle coetanee. Ma ai tempi, scrivere era considerato “roba da uomini” e le opere delle signore non venivano prese particolarmente sul serio. Perciò, nessuna delle sorelle Brontë poté dare alle stampe un proprio libro senza prima essersi scelta uno pseudonimo maschile. 

Emily era una ragazza schiva, riservata ma anche molto coraggiosa (famoso è l’episodio in cui si curò il morso di un cane rabbioso con un ferro da stiro bollente!). Aveva pochi amici fuori dalla cerchia familiare e tutta la sua esistenza, peraltro molto breve dal momento che morì ad appena trent’anni, trascorse nella solitaria e amatissima brughiera dello Yorkshire. Questo è anche il motivo per cui molti continuano a chiedersi come abbia fatto una donna, con così poca esperienza di mondo e di persone, a tirar fuori un romanzo tanto strutturato e psicologicamente complesso. Forse chi si pone questa domanda, non conosce il potere dell’immaginazione! 

La brughiera e il suo continuo mutare con l'alternarsi della stagioni, degli eventi atmosferici o semplicemente del giorno e della notte, era tutto il mondo di Emily che ne fece la coprotagonista del romanzo. Ma a questo punto occorre un avvertimento: se siete in cerca di romanticherie e di una storia d’amore convenzionale, non sperate di trovarla nella brughiera di “Cime tempestose”! Molti si lasciano trarre in inganno da un titolo che oggi starebbe a pennello ad una soap opera e non immaginano che la storia d’amore non c’è (perché al suo posto ce n'è una d'odio), e se c’è, non è quella di Heathcliff e Catherine, ma della figlia di lei ed Hareton. Per i due infelici protagonisti, l'amore sarà solo una condanna che porterà l'una ad una morte prematura e l'altro ad una vita tormentata dal fantasma della donna amata e fondata sulla vendetta, la violenza e la crudeltà.

Certo leggere oggi “Cime tempestose” significa calarsi nella società dell’epoca, dove le differenze di status sociale connotavano fortemente le comunità  e dove l’unione dell’orfanello Heathcliff con la giovane della middle class Catherine, non era concepita neppure da loro stessi. E infatti Catherine, a dispetto della sua natura libera e ribelle, non ce la fa a violare le convenzioni sociali. Considera Heathcliff troppo degradato per sposarlo e sceglie Edgard, giovane rampollo della upper class, mossa più dall’ambizione sociale che dall’amore. 

Heathcliff non ha in sé nulla del classico eroe romantico, che di solito ha un'evoluzione, da individuo freddo e tenebroso all'inizio della storia a distillato di buone qualità alla fine. Egli, invece, è e rimane una figura sinistra, un uomo distruttivo, un misantropo mosso dalla sete di vendetta.Tutta la sua storia è un susseguirsi di crudeltà  e di violenze. Sarete  continuamente scioccati dalla brutalità  di quest'uomo e ad ogni pagina spererete in una “conversione”, che invece non arriverà mai. Forse proverete a giustificarlo in nome di un'infanzia da bambino abbandonato e di un amore mai compiuto, ma alla fine dovrete arrendervi alla sua indole malefica. E magari penserete, come me,  che l’eroe romantico è Hareton, bambino non amato, cresciuto a pane e violenza, nella più totale ignoranza, che alla fine però impara a leggere e riesce perfino a farsi ricambiare nel suo amore da colei che all’inizio lo disprezzava. 

Ai lettori vittoriani, comunque, questa storia non piacque: il libro ebbe una accoglienza freddina e vendette molto poco. Fu criticata la brutalità della storia, accusata di immoralità, non per i riferimenti alla sessualità (che sono del tutto assenti, tant'è che i figli nascono quasi dal nulla), ma proprio per la mancata redenzione di Heathcliff. 
Anche la tecnica narrativa sollevò perplessità perché i lettori dell’epoca gradivano le storie lineari, con un ordine cronologico preciso, mentre “Cime Tempestose”, con i  flashback, i piani temporali diversi e con l’introduzione del doppio narratore (che racconta ciò che un'altra persona gli ha raccontato) doveva generare parecchia confusione mentale.

A proposito di costruzione narrativa, faccio solo un piccolo accenno al  “tema del doppio”, perché lo trovo curioso e potrebbe essere un gioco divertente per i nuovi lettori ma anche per i “ri-lettori”. Tutto nel romanzo è duplice: le due case (Wuthering Heights e Thrushcross Grange), le due famiglie (Earnshaw e Linton), le due coppie di fratello e sorella, i due amori della vita di Catherine (Heathcliff e Edgar), le due Catherine (madre e figlia), i due temi del romanzo (amore e odio), le due parti in cui è divisibile la storia, ognuna dedicata ad una delle due generazioni, perfino i due colori di capelli, quelli neri dei “tribolati” (Heathcliff, Catherine, Hindley ed Hareton) e quelli biondi dei “gentili” (Edgar, Isabella, Cathy). Ma chissà  quanti altri se ne possono trovare! 

Dicono che gli uomini non leggano “Cime tempestose” eppure ho due elementi per smentirlo. Il primo sono le parole di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, che trovo una delle più belle critiche scritte a proposito del libro e che trascrivo sotto.  Il secondo è un sito, molto ben fatto, interamente dedicato al romanzo, pieno di curiosità e chicche come l'albero genealogico del romanzo. Un sito che, dopo averlo navigato in lungo e in largo, ho scoperto, pensate un po’, essere stato interamente scritto da un uomo! Buona lettura!
"Emily Brontë, l'ardente, la geniale, l'indimenticabile, l'immortale Emily. Non scrisse che pochi versi, brevi liriche, aspre ferite, alla cui malia non si sfugge. E un romanzo, Cime tempestose, un romanzo come non se ne ne sono mai scritti prima, come non saranno mai scritti dopo. Lo si è voluto paragonare a King Lear. Ma veramente, non a Shakespeare fa pensare Emily, ma a Freud; un Freud che alla propria spregiudicatezza e al proprio tragico disinganno unisse le più alte, le più pure doti artistiche. Si tratta di una fosca vicenda di odi, di sadismo e di repressse passioni, narrate con uno stile teso e corrusco, spirante, fra i tragici fatti, una selvaggia purezza. Il romanzo romantico, se mi consentite il bisticcio, ha qui raggiunto lo zenith." (Giuseppe Tomasi di Lampedusa)