giovedì 28 febbraio 2013

Cinque idee per il bicentenario di "Orgoglio e Pregiudizio"



Buon compleanno "Orgoglio e pregiudizio"! Sono in ritardo di un mese esatto, ma del resto il 28 gennaio è stata anche la mia festa e quindi sono in parte giustificata, almeno spero... Comunque non credo che molti abbiano fatto caso all'assenza di un mio post nel giorno fatidico, visto che non sono di certo mancati omaggi ed onori tributati a questo romanzo, che ha compiuto duecento anni tondi tondi dalla sua pubblicazione, avvenuta appunto il 28 gennaio 1813.
Ma come celebrare degnamente questa ricorrenza speciale? Ecco cinque modi per rivivere il mondo di Jane:
1. Ascoltare l'audiolibro di "Orgoglio e Pregiudizio" edito da Emons e letto da Paola Cortellesi: sarà un'esperienza entusiasmante! Paola Cortellesi è un portento e si è cimentata, vincendola, con una sfida enorme: dare la voce a tutti i personaggi del libro, rendendoli vivi e assolutamente fedeli allo spirito del libro. Sono sicura che Jane Austen avrebbe molto gradito!
2. Andare a curiosare nei blog dedicati a Jane Austen: i blog letterari sono tantissimi, ma non immaginavo che, al loro interno, quelli specificatamente dedicati alla cara Jane fossero una nutrita schiera. Hanno tutti un sapore molto romantico, vi si respira un'aria di intimità, di piccole confidenze intorno ad una tazza di the fumante. Ricchissimi di curiosità, recensioni, consigli, questi blog faranno la vostra gioia e alimenteranno, se ancora ce ne fosse bisogno, la Jane Austen mania. Fra i molti, segnalo www.sofaandcarpet.com, www.unteconjaneausten.com,www.lacollezionistadidettagli.blogspot.it, www.ipsalegit.blogspot.it
 3. Giocare a sposare uno scapolo in possesso di un cospicuo patrimonio e imparare a fare le scelte giuste, proprio come le eroine austeniane, con il libro game "Lost in Austen" di Emma Campbel Western. Non un vero e proprio romanzo, ma un gioco ispirato ai personaggi di Jane Austen, dove il lettore-giocatore deve costruire la propria storia e la propria fortuna/sfortuna. Non l'ho ancora letto, ma devo dire che mi incuriosisce molto e le recensioni pescate qua e là nel web ne parlano bene. Qui di seguito il carinissimo booktrailer, dove prendono vita le simpatiche vignette della disegnatrice Penelope Bagieu che arricchiscono il libro.   
                      
4. Leggere "Morte a Pemberley" di P.D. James, uno dei molti sequel di "Orgoglio e pregiudizio", sicuramente fra i libri più rivisitati e più "continuati" della storia della letteratura. Ne parlerò più diffusamente in uno dei prossimi post, non appena avrò completato la lettura. Per il momento, vi lascio il booktrailer che è delizioso quanto il libro e la sua autrice.


5.  Rileggere qualche pagina del libro, se non tutto, perché ogni lettura è fonte di nuovo divertimento e nuove scoperte. Come scriveva Giuseppe Tomasi di Lampedusa, in un saggio dedicato a Jane Austen: "La Austen è uno di quegli scrittori che richiedono di essere letti lentamente: un attimo di distrazione può far trascurare una frase che ha un'importanza primaria: arte di sfumature, arte ambigua sotto apparente semplicità." E' proprio così, leggere e rileggere per amare sempre più!


martedì 26 febbraio 2013

Il mio libro dell'anima: Piccole donne di Louisa May Alcott


"La perplessità dei suoi familiari aumentò alla vista del rotolo di banconote che depose davanti alla madre dicendo con voce un po' strozzata:"Questo è il mio contributo perchè papà stia meglio, perché ritorni a casa." "Cara, dove li hai presi venticinque dollari? Spero che tu non abbia fatto qualche sciocchezza!" "No, mamma, sono soldi miei, guadagnati onestamente: non ho chiesto elemosine né prestiti e non ho nemmeno rubato. E non credo che mi disapproverai perché ho semplicemente venduto una cosa che era mia." E così dicendo si tolse il cappello e un grido si levò fra i presenti perchè i suoi lunghi e folti capelli non c'erano più."

In un intervento di qualche giorno fa, che potete leggere qui, Massimo Gramellini, geniale vice direttore de "La Stampa", parla dei libri dell'anima, quelli della propria infanzia, quelli capaci di risvegliare, fin dalla copertina, ricordi lontanissimi e potenti. Gramellini elegge fra tutti i libri "Marcovaldo" di Italo Calvino, che pure io ho amato moltissimo, nonostante l'insegnante di italiano delle medie abbia fatto di tutto per farlo odiare all'intera classe, infliggendoci per ogni fine settimana il riassunto di uno dei capitoli, da portare in classe rigorosamente lunedì mattina.

Prendo al volo lo spunto offerto da Gramellini, per parlare del mio libro dell'anima, "Piccole donne" di Louisa May Alcott. Era tanto che l'idea mi frullava in testa, senza mai concretizzarsi, per una strana forma di pudore e per la paura sincera di sembrare decisamente demodè. Forse lo ero anche a sette anni, quando "Piccole donne" mi fu regalato e divenne il primo romanzo della mia libreria. Era un'edizione ridotta per ragazzi, con la copertina cartonata e qua e là delle tavole a colori che davano un volto alle sorelle March e su cui ho fantasticato ripetutamente.

Sono stata in più di una libreria e ho fatto un test per verificare che fine avesse fatto questo classico della letteratura. Ho faticato molto a trovarlo, sommerso da Geronimo Stilton e similari. In un paio di librerie, nella sezione ragazzi non c'era per niente, mentre era disponibile in qualche collana di classici per pubblico adulto. Mi rendo conto che proporre oggi la storia della combriccola di sorelle sia un azzardo. Quale ragazzina riuscirebbe mai ad identificarsi in loro, nelle loro scelte di vita, nei loro valori semplici su cui spicca il sacrificio, il senso della famiglia, l'onestà, l'altruismo?

Per me "Piccole donne" ha rappresentato molte cose. In primo luogo, ha concretizzato il mio amore per la lettura, fino ad allora circoscritto alle fiabe più o meno lunghe ma mai spintosi e allargatosi fino alla forma del romanzo. In secondo luogo, ha alimentato la mia fantasia ed era un porto sicuro dove correre quando la mia famiglia non mi piaceva così tanto e avevo bisogno di sostituire un fratello rompiscatole con il calore di un nugolo di sorelline. Infine è stato un esempio, un riferimento di vita e di valori "buoni". Soprattutto Jo, l'alter ego di Louisa May Alcott, la ribelle, l'impetuosa, la ragazzina desiderosa di affermare se stessa e diventare scrittrice, pronta a vendere i suoi bei capelli per aiutare la famiglia, che rifiuta l'amore Laurie per andare in cerca di uno spirito affine. Le altre sorelle sbiadivano al confronto con la travolgente Jo. Se Gramellini rivede se stesso nel Marcovaldo di Calvino, io affermo senza vergogna che il coraggio avuto in certi giorni bui della mia vita non sarebbe forse stato lo stesso senza l'esempio di Jo: a lei devo molto di ciò che sono.

domenica 24 febbraio 2013

Moshi moshi: l'elaborazione del lutto secondo Banana Yoshimoto


"Ripensandoci, forse per la prima volta da quando era successo quello che era successo, versai lacrime "normali". Non fu un pianto disperato, non fu odio né dolore, né risentimento, neanche rimorso. Scendevano una dopo l'altra, inarrestabili (...). A un livello più profondo, lo sentivo, mi stavo dando tregua."

A dispetto dello pseudonimo, volutamente scelto, per sua stessa dichiarazione, perchè androgino, Banana Yoshimoto è una delle scrittrici più "femminili" che si possano leggere. Lo affermo nella connotazione positiva del termine, come sinonimo di un'anima sensibile e dotata di un'eccezionale capacità introspettiva. Non è una scrittrice per tutti e quindi non a tutti piace. Per apprezzarla bisogna amare le cose fatte con calma, le atmosfere rarefatte e le storie dove, più di quello che accade, conta la parola, come viene raccontato ciò che succede. I detrattori la accusano di essere ripetitiva, perchè i temi dei suoi romanzi sembrano richiamarsi da un libro all'altro della sua ricca produzione. E' un'obiezione infondata: quella di Banana è una scelta consapevole. Ogni scrittore decide di cosa parlare e lei ha scelto i temi della solitudine giovanile, della famiglia, della morte.

Sono i temi che troviamo anche in "Moshi moshi", l'ultimo libro di Banana tradotto in Italia. E' un libro particolarmente "giapponese", perfuso di quell'atmosfera, sospesa fra tradizione e modernità, che connota nel profondo questo paese. Il tema della morte, qui, nasce dal suicidio del padre della protagonista Yoshie. Il suicidio è un grandissimo problema sociale per il Giappone e da anni si tenta di arginare il fenomeno, senza successo. Il paese detiene il triste primato del maggior tasso di suicidi fra i paesi industrializzati. Banana si rivela, nella scelta di parlarne, una scrittrice coraggiosa. In Giappone c'è un grosso pudore intorno a questo argomento, benchè molti abbiano avuto un suicidio in famiglia o nella cerchia degli amici. E' una pratica culturalmente radicata e che trova una parziale spiegazione in un profondo senso dell'onore, nell'espiazione della colpa e nella fede nella reincarnazione. Banana spoglia il suicidio di ogni connotazione "alta" e sposta lo sguardo su chi resta e sulle conseguenze che tale perdita ha sui familiari e sulle loro vita: il sentimento della mancanza, il senso di colpa, la rabbia. Le cause del suicidio del padre, fra l'altro intrecciato a quello di un'altra donna, rimangono oscure. Anche questa è una scelta di Banana. Dare una spiegazione del gesto, per esempio attribuendolo ad una perdita di denaro o a un errore commesso, avrebbe voluto dire, in qualche modo, giustificarlo. Mentra Banana non intende indossare né i panni della sociologa né quelli della psicologa. E' e rimane una scrittrice, che con grande delicatezza e scacciando l'angoscia che da un simile tema potrebbe scaturire, porta il lettore a percorrere con Yoshie e sua madre la tortuosa strada dell'elaborazione del lutto.
 
Questa strada passa per il quartiere di Shimokitazawa, uno dei più caratteristici e vivaci di Tokyo. E' qui che Yoshie prende la decisione di trasferirsi dopo la morte del padre, è questo il posto che l'accoglie e che ha il potere di una carezza sulla sua anima. La madre la raggiungerà a breve, quasi imponendo la sua presenza. La famiglia, non per forza nel senso tradizionale della parola e non sempre costituita, come in questo libro, dai legami di sangue, è per Banana la prima fonte di coraggio e di sostegno. E' il reciproco confortarsi che ci conduce fuori dai momenti più bui: "Mia madre fece un cenno profondo con la testa (...). Guardandola negli occhi capii che forse era completamente diversa da me, ma stava provando esattamente le stesse cose, e questo mi tranquillizzò (...). La mia era la felicità misera di chi sente di non essere stato abbandonato, nonostante tutto."
 
Accanto al quartiere e alla famiglia, si colloca un altro elemento salvifico, il cibo. Fin dal suo primo romanzo, "Kitchen", il cibo ha avuto per Banana una forte connotazione consolatoria. Nutrirsi vuol dire rimanere in vita e quindi amare la vita, l'esatto contrario di chi la vita la rifiuta. Yoshie e la madre trovano nel cibo e nei suoi sapori un modo per non lasciarsi andare e rimanere profondamente attaccate alla vita. Perfino un'insalata può rappresentare un appiglio: "In effetti l'insalata che ho mangiato lì è davvero l'insalata della vita. Ero distrutta, avevo voglia di morire e nessun posto dove andare, il cuore a pezzi, eppure quell'insalata non mi ha respinto. Lì dentro sono riuscita a vedere la parte più tenera e piccola di me, quella in cui pulsava ancora un po' di vita".

Anche in questo libro, infine, tornano l'onirico e il paranormale, temi molto cari a Banana, che in una intervista ha dichiarato: "Io credo molto nell'energia vitale che viene dallo spirito. La vita non è fatta soltanto di ciò che si vede ma anche di mistero". Il titolo del libro, che è la formula con cui i Giapponesi rispondono al telefono, l'equivalente del nostro "pronto", rimanda al sogno nel quale la protagonista tenta disperatamente di telefonare al padre ormai morto. E' l'estremo tentativo di comunicazione, di dire ancora una parola, quando ormai tutte le possibilità di contatto sono (apparentemente) chiuse. Rimane lo spiraglio offerto dai sogni, dalle apparizioni di fantasmi, da quei fenomeni non razionalmente spiegabili, che possono offrire un prezioso lenimento all'anima.

martedì 12 febbraio 2013

Chocolat, la celebrazione della vita



Questa è un'arte che mi diverte. C'è un alone di stregoneria in tutta la cucina; la scelta degli ingredienti, il modo in cui vengono mescolati, grattugiati, sciolti, le infusioni e come si insaporiscono, le ricette prese da vecchi libri, gli utensili tradizionali (…), le spezie e gli aromi che perdono la loro raffinatezza e lasciano il posto ad una magia più primitiva e sensuale. E' quella specie di fugacità di tutto questo ciò che mi delizia: tanta cura amorevole, tanta abilità ed esperienza riposte in un piacere che dura solo un momento, e che pochi apprezzeranno davvero.”

 Oggi si festeggia Martedì Grasso ed è proprio in questo giorno, di un anno imprecisato, che la misteriosa Vianne Rocher e la figlioletta Anouk, sospinte dal vento di Carnevale, giungono alle porte di Lansquenet, minuscolo paesino di benpensanti adagiato sulle rive del fiume Tannes. E' l'inizio della storia di “Chocolat”, il libro più celebre di Joanne Harris. Madre e figlia si confondono fra i colori dei coriandoli. Caldi profumi intridono l'aria degli ultimi istanti di festa. Ancora poche ore perché la folla si dilegui, le maschere cadano e inizi il tempo di Quaresima, stagione di astinenza e digiuno. Vianne, che al mistero della fede oppone quello ben più terreno della magia, decisa a mettere radici dopo un lungo peregrinare per il mondo, apre una Chocolaterie Artisanale, un luogo capace di diffondere tentazioni con la sua vetrina e i suoi aromi. Il curato del paese, Francis Reynaud, fiuta, mescolato al profumo sensuale del cioccolato, l'odore del pericolo, racchiuso in una donna non allineata e orgogliosamente libera. La diserzione della messa da parte di Vianne e il negozio sempre aperto, anche la domenica, appaiono come vere e proprie sfide all'autorità ecclesiastica e scatenano l'indignazione di Reynaud, che dal pulpito tuona la sua condanna. Ma Vianne non si lascerà intimorire e continuerà a sfornare profumate delizie risvegliando, oltre all'acquolina, anche gli animi degli abitanti di Lansquenet. In breve il negozio diverrà un luogo di incontro, di amicizia e di rottura con il passato per molti degli indimenticabili personaggi del libro: il solitario maestro in pensione Guillaume Duplessis; il suo cane malato Charly; l'anziana anticonformista Armande Voizin; l'infelice Josephine Muscat; il timido e balbuziente Luc Clairmont; lo spirito libero Roux. Chocolat” è un libro gradevolissimo e un'ottima compagnia per le sere d'inverno: è impossibile non essere rapiti dall'aria di intimità e di confidenza della chocolaterie di Vianne, non sentirsi anche noi suoi avventori. Dalle pagine salgono gustosi gli aromi, perché tutto qui ha un profumo: le persone, i luoghi, gli oggetti, oltre, naturalmente, al cioccolato, simbolo per antonomasia di tutti i piaceri della vita, delle tentazioni dolci e innocue. Vianne ci autorizza ad essere golosi e quindi vivi e felici. Ci insegna a celebrare la vita tutta intera, le sue gioie, il suo fluire ma anche la sua fine. Perché questo libro, inaspettatamente, affronta un tema scomodo, quello della dignità del fine vita. E lo fa sospendendo ogni giudizio, in maniera delicata, poetica perfino, con un colpo si scena indimenticabile, che dona alla trama un retrogusto amaro, lo stesso che a volte resta in bocca subito dopo avere gustato un cioccolatino.