domenica 24 febbraio 2013

Moshi moshi: l'elaborazione del lutto secondo Banana Yoshimoto


"Ripensandoci, forse per la prima volta da quando era successo quello che era successo, versai lacrime "normali". Non fu un pianto disperato, non fu odio né dolore, né risentimento, neanche rimorso. Scendevano una dopo l'altra, inarrestabili (...). A un livello più profondo, lo sentivo, mi stavo dando tregua."

A dispetto dello pseudonimo, volutamente scelto, per sua stessa dichiarazione, perchè androgino, Banana Yoshimoto è una delle scrittrici più "femminili" che si possano leggere. Lo affermo nella connotazione positiva del termine, come sinonimo di un'anima sensibile e dotata di un'eccezionale capacità introspettiva. Non è una scrittrice per tutti e quindi non a tutti piace. Per apprezzarla bisogna amare le cose fatte con calma, le atmosfere rarefatte e le storie dove, più di quello che accade, conta la parola, come viene raccontato ciò che succede. I detrattori la accusano di essere ripetitiva, perchè i temi dei suoi romanzi sembrano richiamarsi da un libro all'altro della sua ricca produzione. E' un'obiezione infondata: quella di Banana è una scelta consapevole. Ogni scrittore decide di cosa parlare e lei ha scelto i temi della solitudine giovanile, della famiglia, della morte.

Sono i temi che troviamo anche in "Moshi moshi", l'ultimo libro di Banana tradotto in Italia. E' un libro particolarmente "giapponese", perfuso di quell'atmosfera, sospesa fra tradizione e modernità, che connota nel profondo questo paese. Il tema della morte, qui, nasce dal suicidio del padre della protagonista Yoshie. Il suicidio è un grandissimo problema sociale per il Giappone e da anni si tenta di arginare il fenomeno, senza successo. Il paese detiene il triste primato del maggior tasso di suicidi fra i paesi industrializzati. Banana si rivela, nella scelta di parlarne, una scrittrice coraggiosa. In Giappone c'è un grosso pudore intorno a questo argomento, benchè molti abbiano avuto un suicidio in famiglia o nella cerchia degli amici. E' una pratica culturalmente radicata e che trova una parziale spiegazione in un profondo senso dell'onore, nell'espiazione della colpa e nella fede nella reincarnazione. Banana spoglia il suicidio di ogni connotazione "alta" e sposta lo sguardo su chi resta e sulle conseguenze che tale perdita ha sui familiari e sulle loro vita: il sentimento della mancanza, il senso di colpa, la rabbia. Le cause del suicidio del padre, fra l'altro intrecciato a quello di un'altra donna, rimangono oscure. Anche questa è una scelta di Banana. Dare una spiegazione del gesto, per esempio attribuendolo ad una perdita di denaro o a un errore commesso, avrebbe voluto dire, in qualche modo, giustificarlo. Mentra Banana non intende indossare né i panni della sociologa né quelli della psicologa. E' e rimane una scrittrice, che con grande delicatezza e scacciando l'angoscia che da un simile tema potrebbe scaturire, porta il lettore a percorrere con Yoshie e sua madre la tortuosa strada dell'elaborazione del lutto.
 
Questa strada passa per il quartiere di Shimokitazawa, uno dei più caratteristici e vivaci di Tokyo. E' qui che Yoshie prende la decisione di trasferirsi dopo la morte del padre, è questo il posto che l'accoglie e che ha il potere di una carezza sulla sua anima. La madre la raggiungerà a breve, quasi imponendo la sua presenza. La famiglia, non per forza nel senso tradizionale della parola e non sempre costituita, come in questo libro, dai legami di sangue, è per Banana la prima fonte di coraggio e di sostegno. E' il reciproco confortarsi che ci conduce fuori dai momenti più bui: "Mia madre fece un cenno profondo con la testa (...). Guardandola negli occhi capii che forse era completamente diversa da me, ma stava provando esattamente le stesse cose, e questo mi tranquillizzò (...). La mia era la felicità misera di chi sente di non essere stato abbandonato, nonostante tutto."
 
Accanto al quartiere e alla famiglia, si colloca un altro elemento salvifico, il cibo. Fin dal suo primo romanzo, "Kitchen", il cibo ha avuto per Banana una forte connotazione consolatoria. Nutrirsi vuol dire rimanere in vita e quindi amare la vita, l'esatto contrario di chi la vita la rifiuta. Yoshie e la madre trovano nel cibo e nei suoi sapori un modo per non lasciarsi andare e rimanere profondamente attaccate alla vita. Perfino un'insalata può rappresentare un appiglio: "In effetti l'insalata che ho mangiato lì è davvero l'insalata della vita. Ero distrutta, avevo voglia di morire e nessun posto dove andare, il cuore a pezzi, eppure quell'insalata non mi ha respinto. Lì dentro sono riuscita a vedere la parte più tenera e piccola di me, quella in cui pulsava ancora un po' di vita".

Anche in questo libro, infine, tornano l'onirico e il paranormale, temi molto cari a Banana, che in una intervista ha dichiarato: "Io credo molto nell'energia vitale che viene dallo spirito. La vita non è fatta soltanto di ciò che si vede ma anche di mistero". Il titolo del libro, che è la formula con cui i Giapponesi rispondono al telefono, l'equivalente del nostro "pronto", rimanda al sogno nel quale la protagonista tenta disperatamente di telefonare al padre ormai morto. E' l'estremo tentativo di comunicazione, di dire ancora una parola, quando ormai tutte le possibilità di contatto sono (apparentemente) chiuse. Rimane lo spiraglio offerto dai sogni, dalle apparizioni di fantasmi, da quei fenomeni non razionalmente spiegabili, che possono offrire un prezioso lenimento all'anima.

Nessun commento:

Posta un commento