"La
perplessità dei suoi familiari aumentò alla vista del rotolo di
banconote che depose davanti alla madre dicendo con voce un po'
strozzata:"Questo è il mio contributo perchè papà stia
meglio, perché ritorni a casa." "Cara, dove li hai presi
venticinque dollari? Spero che tu non abbia fatto qualche
sciocchezza!" "No, mamma, sono soldi miei, guadagnati
onestamente: non ho chiesto elemosine né prestiti e non ho nemmeno
rubato. E non credo che mi disapproverai perché ho semplicemente
venduto una cosa che era mia." E così dicendo si tolse il
cappello e un grido si levò fra i presenti perchè i suoi lunghi e
folti capelli non c'erano più."
In un intervento di qualche giorno fa, che potete leggere qui, Massimo Gramellini, geniale vice direttore de "La Stampa", parla dei libri dell'anima, quelli della propria infanzia, quelli capaci di risvegliare, fin dalla copertina, ricordi lontanissimi e potenti. Gramellini elegge fra tutti i libri "Marcovaldo" di Italo Calvino, che pure io ho amato moltissimo, nonostante l'insegnante di italiano delle medie abbia fatto di tutto per farlo odiare all'intera classe, infliggendoci per ogni fine settimana il riassunto di uno dei capitoli, da portare in classe rigorosamente lunedì mattina.
Prendo al volo lo spunto offerto da Gramellini, per parlare del mio libro dell'anima, "Piccole donne" di Louisa May Alcott. Era tanto che l'idea mi frullava in testa, senza mai concretizzarsi, per una strana forma di pudore e per la paura sincera di sembrare decisamente demodè. Forse lo ero anche a sette anni, quando "Piccole donne" mi fu regalato e divenne il primo romanzo della mia libreria. Era un'edizione ridotta per ragazzi, con la copertina cartonata e qua e là delle tavole a colori che davano un volto alle sorelle March e su cui ho fantasticato ripetutamente.
Sono stata in più di una libreria e ho fatto un test per verificare che fine avesse fatto questo classico della letteratura. Ho faticato molto a trovarlo, sommerso da Geronimo Stilton e similari. In un paio di librerie, nella sezione ragazzi non c'era per niente, mentre era disponibile in qualche collana di classici per pubblico adulto. Mi rendo conto che proporre oggi la storia della combriccola di sorelle sia un azzardo. Quale ragazzina riuscirebbe mai ad identificarsi in loro, nelle loro scelte di vita, nei loro valori semplici su cui spicca il sacrificio, il senso della famiglia, l'onestà, l'altruismo?
Per
me "Piccole donne" ha rappresentato molte cose. In primo
luogo, ha concretizzato il mio amore per la lettura, fino ad allora
circoscritto alle fiabe più o meno lunghe ma mai spintosi e
allargatosi fino alla forma del romanzo. In secondo luogo, ha
alimentato la mia fantasia ed era un porto sicuro dove correre quando
la mia famiglia non mi piaceva così tanto e avevo bisogno di
sostituire un fratello rompiscatole con il calore di un nugolo di
sorelline. Infine è stato un esempio, un riferimento di vita e di
valori "buoni". Soprattutto Jo, l'alter ego di Louisa May
Alcott, la ribelle, l'impetuosa, la ragazzina desiderosa di affermare
se stessa e diventare scrittrice, pronta a vendere i suoi bei capelli
per aiutare la famiglia, che rifiuta l'amore Laurie per andare in
cerca di uno spirito affine. Le altre sorelle sbiadivano al confronto
con la travolgente Jo. Se Gramellini rivede se stesso nel Marcovaldo
di Calvino, io affermo senza vergogna che il coraggio avuto in certi
giorni bui della mia vita non sarebbe forse stato lo stesso senza
l'esempio di Jo: a lei devo molto di ciò che sono.
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