lunedì 25 giugno 2012

Una stanza tutta per sé: l'esclusione femminile dalla letteratura



"Se vuole scrivere romanzi una donna deve avere del denaro e una stanza tutta per sé."

La lettura di questo libro non poteva ancora attendere, non in un blog che è nato per esplorare la letteratura al femminile. Si tratta del celebre saggio che Virginia Woolf scrisse analizzando il tormentato rapporto fra le donne e la scrittura. Prima di prendere la forma compiuta di libro, queste pagine furono il testo delle due conferenze che l'autrice tenne nel 1928 davanti ad una platea di studentesse del Newnham e del Girton College di Cambridge. Attraverso un'analisi lucida, a tratti ironica ma mai avvelenata dall'acredine che scaturisce dalla lotta fra i sessi, Virginia Woolf cerca di dare una spiegazione alla pressoché totale assenza di voci femminili nella produzione letteraria occidentale.

Gli uomini hanno sempre scritto e spesso hanno scritto di donne, ma dove erano queste eroine nella vita reale? Segregate in casa, ignoranti, ridotte al silenzio, vittime di matrimoni combinati, intente ad allevare la numerosa prole, private di ogni diritto come il voto o la possibilità di accedere al lavoro, con l'eccezione di pochi mestieri "donneschi" e non redditizi, tacciate di una presunta inferiorità mentale a lungo teorizzata, che le ha sempre ridotte a pallide figuranti nella storia (non solo) letteraria. 

E' nell'Ottocento che la donna inizia timidamente a scrivere, spesso con l'orecchio teso, pronta a nascondere velocemente i fogli al primo rumore di passi, perchè una donna con una penna in mano è una donna non intenta ai suoi doveri, quelli insiti nel ruolo di figlia, moglie e madre. Una scrittura furtiva, dunque, fatta su pezzi di carta riciclata, in cui la donna che arriva alla pubblicazione si occulta dietro pseudonimi maschili o si dissolve nell'anonimato.

Perchè questa esclusione? Perché alla donna sono sempre mancate due cose che Virginia Woolf giudica fondamentali: dei soldi e una stanza tutta per sé.
I soldi sono sinonimo di indipendenza economica e morale, significano che la donna non deve necessariamente avere un uomo che la mantenga; significa essere affrancata dalla quotidianità, da molti di quei lavori di cura e gestione della casa e dei suoi abitanti che per secoli le hanno sottratto tempo, impegnandole l'intera giornata e impedendole di dedicarsi ad altro; significa poter studiare, leggere, viaggiare, fare esperienze.

La stanza di cui parla Virginia Woolf è invece un luogo al tempo stesso reale e simbolico. E' una porta da chiudere, è il dono del silenzio e della concentrazione; significa non essere disturbata, perché scrivere è uno sforzo creativo che con difficoltà avviene fra mille interruzioni, nella confusione di un luogo della casa attraversato da chiunque, come devono essere stati per secoli gli spazi in cui la donna trascorreva le sue giornate. Ma la stanza è anche l'interiorità femminile, un luogo nascosto dentro se stesse dove poter pensare ed elaborare, dove essere libera e creativa. Solo in queste condizioni basilari un'opera può nascere e maturare.

"Una stanza tutta per sé" è un saggio profondamente femminista ma senza lanciare invettive, senza innalzare barricate, senza inneggiare alla contrapposizione uomo-donna. Benché abbia visto la luce negli anni immediatamente successivi alle infuocate lotte in cui le donne inglesi chiedevano il diritto di voto, l'accesso alle Università e alla carriera, è un saggio dove non spirano venti di guerra ma che, anzi, invita alla scoperta del lato maschile e femminile che alberga in ciascuno di noi perché la mente è androgina e produce i migliori frutti quando si realizza una convivenza pacifica ed armoniosa delle due anime da cui è composta. 

Questo piccolo e illuminante saggio non è solo la storia dell'esclusione femminile dalla letteratura ma anche un'esortazione a scrivere e più in generale alla scoperta dei propri talenti. E' un invito rivolto a tutte le donne ad avere fiducia nelle proprie capacità, a credere in se stesse, a mettersi alla prova sempre, a sperimentarsi in quei campi dove qualcun'altro, un uomo, vorrebbe escluderle. E' l'incoraggiamento a superare il complesso di Cenerentola, la paura tipicamente femminile del ruolo pubblico e del successo, conseguenza naturale di una millenaria subalternità all'uomo. E' un libro che ogni donna dovrebbe leggere e meditare, perché ancora oggi la voce di Virginia Woolf può aiutarci a oltrepassare quegli ostacoli, a vincere quei pregiudizi che nei più diversi campi continuano a spingerci nell'angolo, a delimitare le nostre possibilità, a privarci di quella libertà che è mentale prima ancora di essere sancita dalle leggi.

mercoledì 20 giugno 2012

"Frankenstein" di Mary Shelley: una donna scrive la prima storia di fantascienza


Era una cupa notte di novembre quando vidi il coronamento delle mie fatiche. Con un'ansia che assomigliava all'angoscia, raccolsi intorno a me gli strumenti atti ad infondere la scintilla di vita nell'essere inanimato che giaceva ai miei piedi. Era quasi l'una del mattino; la pioggia batteva monotona contro le imposte e la candela avrebbe presto dato i suoi ultimi guizzi quando, alla luce che stava per spegnersi, vidi aprirsi i foschi occhi gialli della creatura; respirò a fatica e un moto convulso le agitò le membra.”

Siamo sulle sponde del lago di Ginevra, estate del 1816, quando il poeta Byron lancia una sfida agli amici riuniti attorno al fuoco e annoiati dalla pioggia: scrivere un racconto dell'orrore. L'unica che porta a termine il lavoro è anche la sola donna presente, la diciannovenne Mary Shelley, figlia di un filosofo (William Godwin) e di un'intellettuale femminista (Mary Wollstonecraft), morta qualche giorno dopo averla data alla luce.  “Frankestein o il Prometeo moderno”, viene pubblicato due anni dopo, nel 1818: in copertina, il nome dell'autrice non c'è. La prefazione è firmata dal poeta Shelley e tutto lascia intendere che ne sia anche l'autore. Per quanto la vita di Mary sia anticonvenzionale e pienamente corrispondente all'ideale romantico dei tempi, scrivere non è un mestiere da donna e solo l'edizione del 1831 ne riconoscerà i meriti. 

La biografia della Shelly sorprende per la sua modernità. I genitori sono sposati ma vivono in case separate per volontà del padre filosofo e contrario alle convenzioni matrimoniali. La piccola cresce in una “famiglia allargata”, composta dalla seconda moglie del padre che, come nelle migliori fiabe, la detesta, e da un nugolo di fratellastri e sorellastre, tutti stipati in un minuscolo alloggio londinese, fra molte ristrettezze e pochi soldi a disposizione. Non stupisce, quindi, che la giovane Mary a diciassette anni scappi via, infatuata del poeta e baronetto Percy Shelley, che all'epoca è un affascinante giovanotto di vent'anni e un mascalzone in piena regola, uno di quelli che una madre (ma Mary è orfana...) non augurerebbe mai di incontrare alla propria figlia. Il nostro, che si autodefinisce “cavalier folletto” (Elfin Knight), è sposato ed ha già un figlio quando si dà alla fuga con Mary. Trascorre le giornate scrivendo poesie, viaggiando e inseguendo le  passioni del suo cuore, più o meno platoniche. Il destino di Mary è segnato: lo sposa quando lui, in seguito al suicidio della moglie, è ormai vedovo; gli dà quattro figli, tre dei quali persi ancora piccolissimi, con tutto il carico di dolore conseguente; infine, a soli 25 anni rimane vedova, dato che il marito si è avventurato per una gita in barca da cui non farà più ritorno. Non paga di tutte le sventure che sono derivate dall'unione con Shelley, Mary dedica l'ultima parte della sua vita a riordinare ed annotare l'opera di cotanto marito.

L'unico merito che mi sento di attribuire al Cavalier Folletto, è quello di avere introdotto Mary in un ambiente di letterati, nel quale gravitava anche Byron, che ne spronò l'intelligenza e nutrì la fantasia. Probabilmente, se non si fosse trovata in questo contesto, la storia di Frankenstein non sarebbe mai stata scritta.
Studente universitario, cultore appassionato di chimica e di anatomia, Victor Frankenstein appronta in soffitta un piccolo laboratorio dove si dedica a misteriosi esperimenti di assemblaggio e ricomposizione di parti di cadaveri sottratte ai cimiteri dei dintorni. Riesce così a dare forma ad una creatura dall'aspetto orribile ma di animo buono e sensibile che però, rifiutato dalla gente per le sue mostruose fattezze,  e preso coscienza, attraverso un processo di auto-educazione, della propria solitudine, si trasforma in un essere violento e vendicativo, seminatore di morte ed orrore. Uno per uno tutti gli amici e i parenti di Frankenstein saranno uccisi dal mostro, che infine, in maniera perversa e sottile, condurrà verso la morte il suo stesso creatore. 

Frankenstein è il simbolo dell'uomo che, spinto dalla curiosità, dalla sete di sapere e anche dall'ambizione, mette alla prova se stesso e la propria intelligenza, nello sforzo teso a superare i limiti della conoscenza umana. Il sottotitolo dell'opera, “il nuovo Prometeo”, suggerisce un confronto con il mito di colui che rubò il fuoco agli dei per farne dono agli uomini. Ma mentre la storia di Prometeo è il racconto dell'uomo che sfida la divinità, Frankenstein è la storia dell'uomo che si sostituisce a Dio, con esiti fatali e disastrosi. Oggi che le scoperte della genetica e della biologia molecolare hanno davvero consentito di creare la vita in laboratorio, ci si interroga spesso su quali siano i limiti della scienza. Credo però che la riflessione andrebbe spostata su un altro campo, ovvero su quali siano le responsabilità dello scienziato

La rovina di Frankenstein, infatti, non nasce tanto dall'avere oltrepassato i confini della conoscenza, ma dalla mancanza di responsabilità del creatore nei confronti della sua creatura, abbandonata e ripudiata, al punto da non ricevere neppure un nome. In tutto il romanzo, gli unici appellativi saranno “mostro”, “demonio”, “il mio nemico” e similari, che bene sottolineano il disprezzo che circonda un essere la cui sola colpa è avere un aspetto sgradevole.  Così il mostro diventa il simbolo dell'emarginato sociale, di colui che viene respinto perché diverso, fuori dagli schemi, perché “l'altro da sé” incute sempre paura. 

Il pensiero corre ad un altro “demone” letterario, Heathcliff di “Cime tempestose”. Forse il parallelismo è azzardato ma non posso fare a meno di pensare che entrambi i personaggi siano dei “non amati” ed è il non amore che li allontana dalla loro vera natura. Heathcliff è orfano, subisce nell'infanzia vessazioni di ogni tipo e la perdita dell'unica donna (o essere umano...) che abbia mai amato, lo trasforma in un misantropo vendicativo. La creatura di Frankeinstein non ha una famiglia e viene cacciata da tutti, perfino dal suo stesso creatore, cui rivolge un ultimo, disperato appello (avere una compagna) destinato a rimanere inascoltato; l'esclusione sociale e la solitudine cui è condannato lo trasformeranno in uno spregevole omicida. L'uomo non è quindi naturalmente malvagio, non nasce tale, ma è l'ambiente in cui vive,  le persone con cui si relaziona, che ne corrompono e stravolgono la personalità. 

Ho sempre pensato che, se un libro supera l'epoca in cui è stato scritto, se i suoi personaggi e le sue tematiche assumono valore universale, se riesce a parlare al lettore moderno risvegliandone riflessioni e domande ancora attuali, si meriti pienamente la definizione di “classico”. Frankenstein, senza ombra alcuna, lo è. Ha superato la prova del tempo e non solo è uno dei migliori romanzi gotici mai scritti ma anche per certi aspetti antesignano del romanzo di fantascienza, un genere letterario che all'epoca doveva ancora nascere, nonché ispiratore continuo di trasposizioni teatrali e adattamenti (e a  volte tradimenti)  cinematografici. E l'autore, lo dico con orgoglio, è stata una donna, una giovane donna di appena 19 anni.

giovedì 14 giugno 2012

La mia nuova libreria: non solo Billy




Questa foto è stata per me una duplice fonte di ispirazione. Erano mesi che studiavo il modo per colonizzare nuovi spazi nel mio micro appartamento e per dare una casa agli amici libri sempre più numerosi. Dopo avere navigato il web in lungo, spulciato pagine e pagine di riviste di arredamento, essere sbiancata di fronte a prezzi che nessun lettore di buon senso spenderebbe per una libreria, preferendo comprare con la stessa cifra centinaia di volumi, ho iniziato a sfogliare vorace il catalogo Ikea.

Scartata la classica Billy, dal momento che cercavo qualcosa da appendere al muro, ho pensato a delle banalissime ma pur sempre funzionali mensole, senza avere un'idea precisa di come disporle. Google immagini mi ha offerto la risposta: una libreria carinissima al costo di poche decine di euro, nata assemblando le mensole Lack di due diverse misure e facilmente riproducibile con l'ausilio di un tuttofare dotato di una buona cassetta degli attrezzi e molta, molta pazienza.

La foto propone anche un quanto mai originale sistema di classificazione dei libri: per colore. La cosa farà inorridire i benpensanti: ma come si fa a ritrovare un libro? La risposta è semplice: io, i miei libri, che ho letto, tenuto fra le mani, sciupato, sottolineato, li riconosco subito, anche ad occhi chiusi, da un brandello di copertina. Pertanto non ho bisogno di disporli in ordine alfabetico o per genere o secondo chissà quale criterio. In più aggiungo che casa mia non è una biblioteca e quindi non c'è nessun bisogno di applicare chissà quale criterio di catalogazione.

La classificazione per colore mette proprio allegria, è un pezzo di arcobaleno in casa ed incuriosisce tutti. E' anche divertente vedere quali "accoppiamenti" si producono. Libri che non sarebbero mai stati vicini solo perché i loro autori hanno le iniziali del cognome troppo distanti nell'alfabeto, si trovano curiosamente accanto e l'effetto è quanto mai simpatico. Nel suo saggio "Toccare i libri", l'autore Jesus Marchamalo, dedica all'argomento un intero capitolo, intitolato "L'ordine e la disposizione". Vengono passati in rassegna diversi metodi di classificazione, ma non si fa neppure un accenno alla disposizione per colore. Forse perché troppo frivola? Troppo femminile? O forse perché si corre il rischio di essere scambiati per uno di quei non-lettori che usano i libri come oggetto di arredamento, al pari di qualunque soprammobile? Non importa cosa pensa la gente: chi ama i libri, li considera la cosa più bella di cui circondarsi e da mostrare in casa propria. E voi quale logica o non-logica seguite per disporre i vostri preziosi libri?


lunedì 11 giugno 2012

The Versatile Blogger Award


Ma che bello! Grazie, grazie, mille volte grazie! Ero assolutamente convinta che il mio blog, pochi mesi di vita e molta inesperienza da parte mia, fosse del tutto ignorato nel mare magnum dei blog più anziani e decisamente più “fighi” che popolano il web. Invece, a qualcuno è piaciuto al punto da conferirmi (che parolona!) "The Versatile Blogger Award". A farlo sono stati gli amici di Libri Pensieri, che di cuore ringrazio e di cui pubblico qui il link al loro bel blog. Le regole del premio impongono, dopo i dovuti ringraziamenti, di raccontare sette cose di sé. Premetto che non reputo me stessa un argomento così interessante, tuttavia le regole sono regole e mi adeguo:


1. Da piccola, volevo fare la maestra; sono diventata tutta un'altra cosa, non mi lamento, ma in me rimarrà sempre questo piccolo rimpianto;
2. penso che Tim Burton sia un genio e adoro i suoi film;
3. sogno di diventare mamma, non necessariamente la migliore del mondo;
4. ho una piccola collezione di segnalibri nata per caso;
5. sono del segno dell'Acquario e devo dire che mi ci riconosco;
6. solo quando nel mio balcone si è installato Silvestro, ho scoperto di amare i gatti;
7. vivo con l'uomo più meraviglioso del mondo o, come dice lui, con quello più paziente!

Ed ora l'ultima regola: conferire il premio ad altri 15 blog e comunicargli che hanno vinto. Ecco la mia personalissima selezione, in ordine assolutamente sparso:
1.
Copertine di libri, per la simpatia;
2.
Appunti di lettura, perché sottolineare libri è anche una mia fissazione;
3.
Libri in prestito, per la splendida e coraggiosa idea;
4.
Gastronomia Andreani, per la dolcezza dei post e perché è il luogo dove mi piacerebbe vivere;
5.
Zelda was a writer, perché la sua autrice è di sicuro un'anima bella.
Mi fermo qui: lo so, lo so … la regola imporrebbe molte più segnalazioni. Ma la bimba dispettosa che c'è in me, troppe regole proprio non le sopporta!