Gertrude,
che camminava su e giù per la stanza, si fermò tutto a un tratto e
disse: "Prendiamo qualche buona decisione!".
"Sì,"
gridò Phyllis con la sua usuale schiettezza; "lastrichiamo un
po' la strada per l'inferno!". "Primo, non saremo ciniche."
La mozione fu approvata all'unanimità.
"Secondo, saremo felici!"
Questa mozione venne approvata con entusiasmo anche maggiore della precedente.
"Terzo," propose Phyllis, pronunciando le parole con finto pathos, "terzo, non diremo mai e poi mai che abbiamo visto giorni migliori!"
Così, con i visi sorridenti, si alzarono in piedi e sfidarono il Destino.
La fotografia in copertina è molto bella. Al centro, una donna ritratta di spalle cammina lungo una strada, diretta chissà dove. Mi colpiscono due cose: il fatto che sia da sola (e all'epoca in cui è stata ripresa l'immagine non doveva essere così consueto) e il passo svelto (lo si intuisce dalla mano, salda sulla tesa del cappello, che nella foga potrebbe volarle via). Intorno la città, quale non lo sappiamo, sicuramente una metropoli, come si intuisce dalla strada lunga, ben tenuta e costeggiata dai lampioni e da una serie di edifici, sfumati sullo sfondo, che lasciano trapelare il fervore cittadino.
Confesso
di avere scelto questo libro, acquistato alla Libreria delle Donne di
Bologna (potete leggere qui la mia scoperta di questo posto incantevole) principalmente per la
copertina, anche se questo (lo sanno tutti!) non dovrebbe essere un
criterio trainante di scelta. L'altra cosa che mi ha invogliata deve
essere stato una specie di transfert, un sottile richiamo a quella
che considero uno dei personaggi che più hanno ispirato la mia vita.
Parlo di Jo March (qui potete leggere dell'amore incondizionato che provo per lei), nome che
in copertina troneggia sotto il titolo ed è quello della casa
editrice. Infine l'autrice, Amy Levy, un nome che non riecheggiava
nella mia memoria e non conoscevo. Ce n'era abbastanza per essere
incuriosita e saperne di più.
Andiamo
con ordine. Jo March è un'agenzia letteraria ed una casa
editrice, ma innanzitutto un progetto, originale, coraggioso e
culturalmente "alto" (oltre che radicato nella regione in
cui sono nata e vivo, l'Umbria), che si prefigge di riportare alla
luce, tradurre e dare alle stampe piccoli capolavori dimenticati,
spesso mai apparsi in edizione italiana, ma che meritano di essere
scoperti e amati, quanto altri classici immortali.
"La
storia di una bottega" è uno di questi. La produzione
ottocentesca di romanzi inglesi è molto ampia e ricca di autori che
non sono "sopravvissuti" alla prova del tempo, o perché
epigoni di predecessori ben più importanti o perché, semplicemente,
non hanno trovato qualcuno disposto ad investire su di loro, offrirli
al lettore italiano, insieme a chiavi di interpretazione e
riflessione. Amy Levy è una di queste scrittrici,
ingiustamente mai tradotta in Italia, prima che la Jo March decidesse
di farne il secondo gioiello di una collana dal titolo
emblematico, Atlantide, come l'isola perduta, sprofondata nel
mare, cui questi libri metaforicamente somigliano.
Consiglio
di leggere questo libro subito dopo uno dei romanzi di Jane Austen,
come "Orgoglio e pregiudizio" (qui il link al post dove ne parlo) o "Ragione e
sentimento". Non per fare paragoni (anche se l'ironia e
l'introspezione psicologiche sono due felici qualità che accomunano
le autrici), o peggio "classifiche" fra le due
signore, ma per compiere un percorso ideale, un viaggio meraviglioso
che segua l'evoluzione della condizione femminile lungo l'Ottocento.
Jane Austen ci apre la porta del salotto, delle stanze da ballo,
delle verande; Amy Levy quella di una bottega, un laboratorio, lo
chiameremmo oggi, di fotografia. Le eroine di Jane passeggiano lungo
sentieri di sconfinate tenute della campagna inglese e questa sembra
essere la loro principale occupazione; quelle di Amy, si muovono
affaccendate lungo le strade affollate di Londra e devono lavorare
per vivere. Siamo in due momenti storici diversi, l'inizio e la fine
di un secolo, e diversa è anche la donna che si è spostata dagli
spazi privati e domestici, in quelli pubblici e lavorativi. Amy Levy
delinea qui una "bozza" di quella "new woman",
che negli anni a venire avrà uno sviluppo più marcatamente
femminista.
Amy
Levy sceglie di mettere in scena un quartetto di sorelle (Gertrude,
Lucy, Phyllis e Fanny) che, rimaste orfane e finanziariamente
dissestate, devono trovare un modo per restare a galla nel mare della
vita. Respinte al mittente tutte le offerte di "protezione"
di parenti e amici, scartata l'idea di lavori femminili ma poco
remunerativi, come l'insegnamento o la scrittura, decidono di
intraprendere un'avventura commerciale sfidando i pareri contrari di
tutti e le convenzioni della società dell'epoca. Il lavoro scelto è
quello di fotografe, un mestiere emergente (anche se non certamente
fra le donne!) cui le quattro sorelle si dedicheranno non senza poche
difficoltà. Molto interessante, a mio parere, è la storia di come
la bottega prende vita: dapprima solo un sogno nella testa della
volitiva Gertrude; poi un progetto concreto che passa attraverso i
momenti fondamentali della formazione (Lucy che intraprende un
apprendistato di tre mesi presso un affermato fotografo amico), della
ricerca di un locale in affitto, delle spese oculate per far quadrare
il bilancio, del duro lavoro per dimostrare di essere brave come e
più dei colleghi uomini, della difficoltà ad essere retribuite
quanto loro (che tema attuale!).
Certo,
il finale non è esattamente "rivoluzionario" (non lo
svelo, perché non voglio anticipare altro, se qualcuno fosse curioso
di leggere il libro), ma non è questo che conta, è tutto ciò che
viene prima, e che porta alla conclusione felice, il nocciolo del
libro e, direi, la sua bellezza. Per rispondere alla domanda che
Silvana Colella pone nell'ottima introduzione al libro – "perché
leggere oggi questa storia"- la risposta è: perché le sorelle
Lorimer sono delle pioniere del coraggio e della sfida, che in tempi
avversi hanno saputo far ricorso alle loro migliori risorse e che
possono, ancora oggi, anni di crisi e di sfiducia nel futuro, essere
fonte di ispirazione per tutte noi; per non cedere mai allo sconforto
nei momenti meno prosperi; per prendere anche noi, come loro, la
ferma decisione di non essere ciniche e di essere autenticamente
felici.