“Era una cupa notte di novembre quando vidi il coronamento delle mie fatiche. Con un'ansia che assomigliava all'angoscia, raccolsi intorno a me gli strumenti atti ad infondere la scintilla di vita nell'essere inanimato che giaceva ai miei piedi. Era quasi l'una del mattino; la pioggia batteva monotona contro le imposte e la candela avrebbe presto dato i suoi ultimi guizzi quando, alla luce che stava per spegnersi, vidi aprirsi i foschi occhi gialli della creatura; respirò a fatica e un moto convulso le agitò le membra.”
Siamo sulle sponde del lago di Ginevra,
estate del 1816, quando il poeta Byron lancia una sfida agli amici riuniti
attorno al fuoco e annoiati dalla pioggia: scrivere un racconto dell'orrore.
L'unica che porta a termine il lavoro è anche la sola donna presente, la
diciannovenne Mary Shelley, figlia di un filosofo (William Godwin) e di
un'intellettuale femminista (Mary Wollstonecraft), morta qualche giorno dopo
averla data alla luce. “Frankestein o il
Prometeo moderno”, viene pubblicato due anni dopo, nel 1818: in copertina, il
nome dell'autrice non c'è. La prefazione è firmata dal poeta Shelley e tutto
lascia intendere che ne sia anche l'autore. Per quanto la vita di Mary sia
anticonvenzionale e pienamente corrispondente all'ideale romantico dei tempi,
scrivere non è un mestiere da donna e solo l'edizione del 1831 ne riconoscerà i
meriti.
La biografia della Shelly sorprende per la sua modernità. I genitori
sono sposati ma vivono in case separate per volontà del padre filosofo e contrario
alle convenzioni matrimoniali. La piccola cresce in una “famiglia allargata”,
composta dalla seconda moglie del padre che, come nelle migliori fiabe, la
detesta, e da un nugolo di fratellastri e sorellastre, tutti stipati in un
minuscolo alloggio londinese, fra molte ristrettezze e pochi soldi a
disposizione. Non stupisce, quindi, che la giovane Mary a diciassette anni
scappi via, infatuata del poeta e baronetto Percy Shelley, che all'epoca è un
affascinante giovanotto di vent'anni e un mascalzone in piena regola, uno di
quelli che una madre (ma Mary è orfana...) non augurerebbe mai di incontrare
alla propria figlia. Il nostro, che si autodefinisce “cavalier folletto” (Elfin
Knight), è sposato ed ha già un figlio quando si dà alla fuga con Mary. Trascorre
le giornate scrivendo poesie, viaggiando e inseguendo le passioni del suo cuore, più o meno
platoniche. Il destino di Mary è segnato: lo sposa quando lui, in seguito al
suicidio della moglie, è ormai vedovo; gli dà quattro figli, tre dei quali persi
ancora piccolissimi, con tutto il carico di dolore conseguente; infine, a soli
25 anni rimane vedova, dato che il marito si è avventurato per una gita in
barca da cui non farà più ritorno. Non paga di tutte le sventure che sono
derivate dall'unione con Shelley, Mary dedica l'ultima parte della sua vita a
riordinare ed annotare l'opera di cotanto marito.
L'unico merito che mi sento di
attribuire al Cavalier Folletto, è quello di avere introdotto Mary in un
ambiente di letterati, nel quale gravitava anche Byron, che ne spronò
l'intelligenza e nutrì la fantasia. Probabilmente, se non si fosse trovata in
questo contesto, la storia di Frankenstein non sarebbe mai stata scritta.
Studente universitario, cultore
appassionato di chimica e di anatomia, Victor Frankenstein appronta in soffitta un piccolo laboratorio dove si
dedica a misteriosi esperimenti di assemblaggio e ricomposizione di parti di
cadaveri sottratte ai cimiteri dei dintorni. Riesce così a dare forma ad una
creatura dall'aspetto orribile ma di animo buono e sensibile che però,
rifiutato dalla gente per le sue mostruose fattezze, e preso coscienza, attraverso un processo di
auto-educazione, della propria solitudine, si trasforma in un essere violento e
vendicativo, seminatore di morte ed orrore. Uno per uno tutti gli amici e i
parenti di Frankenstein saranno uccisi dal mostro, che infine, in maniera
perversa e sottile, condurrà verso la morte il suo stesso creatore.
Frankenstein è il simbolo dell'uomo che, spinto dalla curiosità, dalla sete di
sapere e anche dall'ambizione, mette alla prova se stesso e la propria
intelligenza, nello sforzo teso a superare i limiti della conoscenza umana. Il
sottotitolo dell'opera, “il nuovo Prometeo”, suggerisce un confronto con il
mito di colui che rubò il fuoco agli dei per farne dono agli uomini. Ma mentre
la storia di Prometeo è il racconto dell'uomo che sfida la divinità,
Frankenstein è la storia dell'uomo che si sostituisce a Dio, con esiti fatali e
disastrosi. Oggi che le scoperte della genetica e della biologia molecolare
hanno davvero consentito di creare la vita in laboratorio, ci si interroga
spesso su quali siano i limiti della scienza. Credo però che la riflessione
andrebbe spostata su un altro campo, ovvero su quali siano le responsabilità
dello scienziato.
La rovina di Frankenstein, infatti, non nasce tanto
dall'avere oltrepassato i confini della conoscenza, ma dalla mancanza di
responsabilità del creatore nei confronti della sua creatura, abbandonata e
ripudiata, al punto da non ricevere neppure un nome. In tutto il romanzo, gli
unici appellativi saranno “mostro”, “demonio”, “il mio nemico” e similari, che
bene sottolineano il disprezzo che circonda un essere la cui sola colpa è avere
un aspetto sgradevole. Così il mostro
diventa il simbolo dell'emarginato sociale, di colui che viene respinto perché
diverso, fuori dagli schemi, perché “l'altro da sé” incute sempre paura.
Il
pensiero corre ad un altro “demone” letterario, Heathcliff di “Cime
tempestose”. Forse il parallelismo è azzardato ma non posso fare a meno di
pensare che entrambi i personaggi siano dei “non amati” ed è il non amore che
li allontana dalla loro vera natura. Heathcliff è orfano, subisce nell'infanzia
vessazioni di ogni tipo e la perdita dell'unica donna (o essere umano...) che
abbia mai amato, lo trasforma in un misantropo vendicativo. La creatura di
Frankeinstein non ha una famiglia e viene cacciata da tutti, perfino dal suo
stesso creatore, cui rivolge un ultimo, disperato appello (avere una compagna)
destinato a rimanere inascoltato; l'esclusione sociale e la solitudine cui è
condannato lo trasformeranno in uno spregevole omicida. L'uomo non è quindi
naturalmente malvagio, non nasce tale, ma è l'ambiente in cui vive, le persone con cui si relaziona, che ne
corrompono e stravolgono la personalità.
Ho sempre pensato che, se un libro
supera l'epoca in cui è stato scritto, se i suoi personaggi e le sue tematiche
assumono valore universale, se riesce a parlare al lettore moderno
risvegliandone riflessioni e domande ancora attuali, si meriti pienamente la
definizione di “classico”. Frankenstein, senza ombra alcuna, lo è. Ha superato
la prova del tempo e non solo è uno dei migliori romanzi gotici mai scritti ma
anche per certi aspetti antesignano del romanzo di fantascienza, un genere letterario
che all'epoca doveva ancora nascere, nonché ispiratore continuo di
trasposizioni teatrali e adattamenti (e a
volte tradimenti)
cinematografici. E l'autore, lo dico con orgoglio, è stata una donna,
una giovane donna di appena 19 anni.
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