mercoledì 22 agosto 2012

Il piacere di un segnalibro

Da un paio di mesi sul mio comodino e nella mia borsa si è insinuato "lui", l'acerrimo nemico dei libri-libri: l'e-reader! E' stato subito un rapporto conflittuale, di amore ed odio. I vantaggi nel possedere un e-reader sono innumerevoli e si scoprono solo avendone uno, ma forse ciò che si perde (o almeno, che a me manca) è il "rapporto fisico" con il libro. Poterlo sfogliare, accarezzare, strapazzare, scarabocchiare, annusare e, non meno importante, mettere il segno all'ultima pagina letta. Ho sempre detestato e disprezzato chi fa le "orecchie" alle pagine, mi sembra come usare violenza contro qualcosa di inerme, come spezzare il ramo di un albero. Per questo sono una maniaca dei segnalibri, che con il tempo sono diventati una piccola collezione ed è anche il mio souvenir preferito. Girovagando su You tube, ho trovato questo bellissimo tutorial. Lo posto qui, con la promessa di alzare prima o poi la testa dai libri e fare uscire la creativa che sonnecchia in me.
 

martedì 21 agosto 2012

Orgoglio e pregiudizio: scrivere nella stanza di passaggio




"E' verità universalmente riconosciuta che uno scapolo provvisto di un ingente patrimonio debba essere in cerca di moglie"


Virginia Woolf teorizzava che la condizione essenziale per la scrittura fosse l'avere "una stanza tutta per sé". Jane Austen non l'ebbe mai: la sua era piuttosto una stanza di passaggio. Scriveva infatti nel soggiorno comune, dove non aveva una scrivania propria ma si era ritagliata un piccolo spazio sul tavolo da pranzo. Qui appoggiava minuscoli pezzetti di carta che nascondeva furtivamente all'arrivo delle persone di servizio o dei visitatori e che alla sua morte corsero perfino il rischio di essere buttati. Il soggiorno comune fu il luogo di formazione della scrittrice: "la sola educazione letteraria che una donna riceveva agli inizi dell'Ottocento era un'educazione allo studio del carattere, alla analisi delle emozioni. Da secoli la sua sensibilità veniva educata sotto l'influenza della stanza di soggiorno comune. I sentimenti delle persone rimanevano impressi su di lei; aveva costantemente sotto gli occhi i rapporti umani (Virginia Woolf - Una stanza tutta per sé)". L'andirivieni di uomini e donne di ogni tipo, le loro conversazioni, il fluire del tempo e della vita, tutto si concentrava e si dipanava nel salotto comune che divenne la principale fonte di ispirazione per l'acuta e ironica osservatrice Jane Austen. 

In questa atmosfera vide la luce "Prime impressioni", poi ribattezzato "Orgoglio e pregiudizio". Nel 1797, il padre di Jane lo propose ad un editore che cortesemente lo rifiutò, si dice senza neppure averne letto una riga. Fu pubblicato molti anni dopo, nel 1813, con il titolo che lo ha reso celebre e in forma rigorosamente anonima. L'intreccio è famoso, anche grazie alle innumerevoli versioni cinematografiche che ne sono state tratte: Elizabeth Bennet è la seconda di cinque sorelle tutte nubili e desiderose di sposarsi. Negli anni in cui è ambientata la storia, il matrimonio è un mezzo per l'ascesa sociale, un mero contratto, spesso combinato dalle famiglie. Elizabeth, però, non si accontenta di un uomo qualunque, giusto per non rimanere zitella. La nostra eroina vorrebbe sposare l'uomo che ama, proposito che agli occhi materni appare del tutto rivoluzionario, in quanto l'amore non è reputato il principale requisito per contrarre matrimonio.

Fra lo sgomento e la disperazione materna, Elizabeth rifiuta la proposta dell'arido e insopportabile cugino Mr. Collins ma anche quella dell'altezzoso Mr. Darcy, salvo poi pentirsi, quando scopre tutto ciò che quest'ultimo ha fatto per amor suo, compreso salvare la reputazione della sorella minore Kitty, fuggita con un ufficiale arrivista e ricattatore. Pentita di averlo giudicato troppo in fretta e con la mente offuscata dai pregiudizi, Elizabeth riesce a farsi perdonare ed infine a sposare Mr. Darcy. 

Probabilmente, così riassunto all'osso, il libro non sembra dei più avvincenti. In effetti non accade nulla di sconvolgente in tutto il romanzo: niente colpi di scena, niente intrecci complicati o storie fantasiose ai confini della realtà. Nei romanzi della Austen va di scena la quotidianità. La scrittrice è stata la prima ad aprire al lettore la porta di casa e a mostrargli cosa avveniva: conversazioni in famiglia, balli, pranzi, tranquille passeggiate, serate davanti al camino. La Storia, quella dei grandi avvenimenti, resta fuori dall'uscio. "Orgoglio e pregiudizio" è ambientato all'epoca delle guerre napoleoniche, eppure fra le pagine non risuonano mai i fragori delle battaglie, al più si scorge qualche reggimento di passaggio, il cui scopo sembra solo quello di far palpitare il cuore di giovani fanciulle in età da marito. I fatti che all'autrice interessano sono altri, quelli che si svolgono nelle tenute, nelle case, nelle stanze da ballo, nei giardini. Che poi sono i fatti che una donna vissuta a cavallo del sette-ottocento conosceva, non potendo intraprendere grandi viaggi o andare in guerra o avere la libertà e le variegate esperienze di vita concesse ad un uomo. La casa era, per una donna, tutto il suo mondo e, saggiamente, Jane Austen scrive di ciò che conosce. 

Per trentasei capitoli non accade nulla di clamoroso ma continuiamo a girare pagina, gustando ogni singolo personaggio e i suoi inconfondibili tratti caratteriali, così magistralmente dipinti. Non c'è sfumatura dell'animo umano che venga trascurata: la saggezza, la vanità, l'invidia, l'arrivismo, la bontà, la grettezza, la generosità. Jane Austen, seduta nell'angolo in salotto, osserva e scrive: non giudica, non fa la morale, non è saccente, piuttosto divertita, e il suo sguardo ironico si posa sui piccoli nobili e sui grandi borghesi per trasporli sulla pagina con lievità, con un linguaggio che Virginia Woolf definì "assolutamente naturale e armonioso". Buffo osservare che, sebbene tutte le sue eroine aspirino al matrimonio, Jane Austen non si sposò mai e non perchè non ne ebbe l'occasione. Era graziosa, sicuramente dalla conversazione interessante e sappiamo di alcuni corteggiatori. Mi piace pensare che Jane Austen fosse affascinata da ciò che precede il matrimonio (il corteggiamento, le traversie per arrivare a coronare un sogno) ma non dalla vita matrimoniale. Tutti i suoi romanzi si concludono sulla porta della chiesa e le coppie sposate sono il contorno, spesso buffo, talvolta monotono, ai protagonisti nubili e celibi. Forse Jane rifiutò il matrimonio per essere ciò che desiderava e proteggere la scrittrice che era in lei. I doveri matrimoniali e il ruolo di madre di una nidiata di bambini l'avrebbero per forza di cose impedito di scrivere. Concludo con un piccolo consiglio, per chi avesse già gustato il libro ma desidera calarsi nuovamente nell'atmosfera del romanzo: ascoltate l'audiolibro edito da Emons e letto da Paola Cortellesi. E' bravissima e capace di compiere magie con la voce. Dodici ore di ascolto che sono un puro piacere.

lunedì 25 giugno 2012

Una stanza tutta per sé: l'esclusione femminile dalla letteratura



"Se vuole scrivere romanzi una donna deve avere del denaro e una stanza tutta per sé."

La lettura di questo libro non poteva ancora attendere, non in un blog che è nato per esplorare la letteratura al femminile. Si tratta del celebre saggio che Virginia Woolf scrisse analizzando il tormentato rapporto fra le donne e la scrittura. Prima di prendere la forma compiuta di libro, queste pagine furono il testo delle due conferenze che l'autrice tenne nel 1928 davanti ad una platea di studentesse del Newnham e del Girton College di Cambridge. Attraverso un'analisi lucida, a tratti ironica ma mai avvelenata dall'acredine che scaturisce dalla lotta fra i sessi, Virginia Woolf cerca di dare una spiegazione alla pressoché totale assenza di voci femminili nella produzione letteraria occidentale.

Gli uomini hanno sempre scritto e spesso hanno scritto di donne, ma dove erano queste eroine nella vita reale? Segregate in casa, ignoranti, ridotte al silenzio, vittime di matrimoni combinati, intente ad allevare la numerosa prole, private di ogni diritto come il voto o la possibilità di accedere al lavoro, con l'eccezione di pochi mestieri "donneschi" e non redditizi, tacciate di una presunta inferiorità mentale a lungo teorizzata, che le ha sempre ridotte a pallide figuranti nella storia (non solo) letteraria. 

E' nell'Ottocento che la donna inizia timidamente a scrivere, spesso con l'orecchio teso, pronta a nascondere velocemente i fogli al primo rumore di passi, perchè una donna con una penna in mano è una donna non intenta ai suoi doveri, quelli insiti nel ruolo di figlia, moglie e madre. Una scrittura furtiva, dunque, fatta su pezzi di carta riciclata, in cui la donna che arriva alla pubblicazione si occulta dietro pseudonimi maschili o si dissolve nell'anonimato.

Perchè questa esclusione? Perché alla donna sono sempre mancate due cose che Virginia Woolf giudica fondamentali: dei soldi e una stanza tutta per sé.
I soldi sono sinonimo di indipendenza economica e morale, significano che la donna non deve necessariamente avere un uomo che la mantenga; significa essere affrancata dalla quotidianità, da molti di quei lavori di cura e gestione della casa e dei suoi abitanti che per secoli le hanno sottratto tempo, impegnandole l'intera giornata e impedendole di dedicarsi ad altro; significa poter studiare, leggere, viaggiare, fare esperienze.

La stanza di cui parla Virginia Woolf è invece un luogo al tempo stesso reale e simbolico. E' una porta da chiudere, è il dono del silenzio e della concentrazione; significa non essere disturbata, perché scrivere è uno sforzo creativo che con difficoltà avviene fra mille interruzioni, nella confusione di un luogo della casa attraversato da chiunque, come devono essere stati per secoli gli spazi in cui la donna trascorreva le sue giornate. Ma la stanza è anche l'interiorità femminile, un luogo nascosto dentro se stesse dove poter pensare ed elaborare, dove essere libera e creativa. Solo in queste condizioni basilari un'opera può nascere e maturare.

"Una stanza tutta per sé" è un saggio profondamente femminista ma senza lanciare invettive, senza innalzare barricate, senza inneggiare alla contrapposizione uomo-donna. Benché abbia visto la luce negli anni immediatamente successivi alle infuocate lotte in cui le donne inglesi chiedevano il diritto di voto, l'accesso alle Università e alla carriera, è un saggio dove non spirano venti di guerra ma che, anzi, invita alla scoperta del lato maschile e femminile che alberga in ciascuno di noi perché la mente è androgina e produce i migliori frutti quando si realizza una convivenza pacifica ed armoniosa delle due anime da cui è composta. 

Questo piccolo e illuminante saggio non è solo la storia dell'esclusione femminile dalla letteratura ma anche un'esortazione a scrivere e più in generale alla scoperta dei propri talenti. E' un invito rivolto a tutte le donne ad avere fiducia nelle proprie capacità, a credere in se stesse, a mettersi alla prova sempre, a sperimentarsi in quei campi dove qualcun'altro, un uomo, vorrebbe escluderle. E' l'incoraggiamento a superare il complesso di Cenerentola, la paura tipicamente femminile del ruolo pubblico e del successo, conseguenza naturale di una millenaria subalternità all'uomo. E' un libro che ogni donna dovrebbe leggere e meditare, perché ancora oggi la voce di Virginia Woolf può aiutarci a oltrepassare quegli ostacoli, a vincere quei pregiudizi che nei più diversi campi continuano a spingerci nell'angolo, a delimitare le nostre possibilità, a privarci di quella libertà che è mentale prima ancora di essere sancita dalle leggi.

mercoledì 20 giugno 2012

"Frankenstein" di Mary Shelley: una donna scrive la prima storia di fantascienza


Era una cupa notte di novembre quando vidi il coronamento delle mie fatiche. Con un'ansia che assomigliava all'angoscia, raccolsi intorno a me gli strumenti atti ad infondere la scintilla di vita nell'essere inanimato che giaceva ai miei piedi. Era quasi l'una del mattino; la pioggia batteva monotona contro le imposte e la candela avrebbe presto dato i suoi ultimi guizzi quando, alla luce che stava per spegnersi, vidi aprirsi i foschi occhi gialli della creatura; respirò a fatica e un moto convulso le agitò le membra.”

Siamo sulle sponde del lago di Ginevra, estate del 1816, quando il poeta Byron lancia una sfida agli amici riuniti attorno al fuoco e annoiati dalla pioggia: scrivere un racconto dell'orrore. L'unica che porta a termine il lavoro è anche la sola donna presente, la diciannovenne Mary Shelley, figlia di un filosofo (William Godwin) e di un'intellettuale femminista (Mary Wollstonecraft), morta qualche giorno dopo averla data alla luce.  “Frankestein o il Prometeo moderno”, viene pubblicato due anni dopo, nel 1818: in copertina, il nome dell'autrice non c'è. La prefazione è firmata dal poeta Shelley e tutto lascia intendere che ne sia anche l'autore. Per quanto la vita di Mary sia anticonvenzionale e pienamente corrispondente all'ideale romantico dei tempi, scrivere non è un mestiere da donna e solo l'edizione del 1831 ne riconoscerà i meriti. 

La biografia della Shelly sorprende per la sua modernità. I genitori sono sposati ma vivono in case separate per volontà del padre filosofo e contrario alle convenzioni matrimoniali. La piccola cresce in una “famiglia allargata”, composta dalla seconda moglie del padre che, come nelle migliori fiabe, la detesta, e da un nugolo di fratellastri e sorellastre, tutti stipati in un minuscolo alloggio londinese, fra molte ristrettezze e pochi soldi a disposizione. Non stupisce, quindi, che la giovane Mary a diciassette anni scappi via, infatuata del poeta e baronetto Percy Shelley, che all'epoca è un affascinante giovanotto di vent'anni e un mascalzone in piena regola, uno di quelli che una madre (ma Mary è orfana...) non augurerebbe mai di incontrare alla propria figlia. Il nostro, che si autodefinisce “cavalier folletto” (Elfin Knight), è sposato ed ha già un figlio quando si dà alla fuga con Mary. Trascorre le giornate scrivendo poesie, viaggiando e inseguendo le  passioni del suo cuore, più o meno platoniche. Il destino di Mary è segnato: lo sposa quando lui, in seguito al suicidio della moglie, è ormai vedovo; gli dà quattro figli, tre dei quali persi ancora piccolissimi, con tutto il carico di dolore conseguente; infine, a soli 25 anni rimane vedova, dato che il marito si è avventurato per una gita in barca da cui non farà più ritorno. Non paga di tutte le sventure che sono derivate dall'unione con Shelley, Mary dedica l'ultima parte della sua vita a riordinare ed annotare l'opera di cotanto marito.

L'unico merito che mi sento di attribuire al Cavalier Folletto, è quello di avere introdotto Mary in un ambiente di letterati, nel quale gravitava anche Byron, che ne spronò l'intelligenza e nutrì la fantasia. Probabilmente, se non si fosse trovata in questo contesto, la storia di Frankenstein non sarebbe mai stata scritta.
Studente universitario, cultore appassionato di chimica e di anatomia, Victor Frankenstein appronta in soffitta un piccolo laboratorio dove si dedica a misteriosi esperimenti di assemblaggio e ricomposizione di parti di cadaveri sottratte ai cimiteri dei dintorni. Riesce così a dare forma ad una creatura dall'aspetto orribile ma di animo buono e sensibile che però, rifiutato dalla gente per le sue mostruose fattezze,  e preso coscienza, attraverso un processo di auto-educazione, della propria solitudine, si trasforma in un essere violento e vendicativo, seminatore di morte ed orrore. Uno per uno tutti gli amici e i parenti di Frankenstein saranno uccisi dal mostro, che infine, in maniera perversa e sottile, condurrà verso la morte il suo stesso creatore. 

Frankenstein è il simbolo dell'uomo che, spinto dalla curiosità, dalla sete di sapere e anche dall'ambizione, mette alla prova se stesso e la propria intelligenza, nello sforzo teso a superare i limiti della conoscenza umana. Il sottotitolo dell'opera, “il nuovo Prometeo”, suggerisce un confronto con il mito di colui che rubò il fuoco agli dei per farne dono agli uomini. Ma mentre la storia di Prometeo è il racconto dell'uomo che sfida la divinità, Frankenstein è la storia dell'uomo che si sostituisce a Dio, con esiti fatali e disastrosi. Oggi che le scoperte della genetica e della biologia molecolare hanno davvero consentito di creare la vita in laboratorio, ci si interroga spesso su quali siano i limiti della scienza. Credo però che la riflessione andrebbe spostata su un altro campo, ovvero su quali siano le responsabilità dello scienziato

La rovina di Frankenstein, infatti, non nasce tanto dall'avere oltrepassato i confini della conoscenza, ma dalla mancanza di responsabilità del creatore nei confronti della sua creatura, abbandonata e ripudiata, al punto da non ricevere neppure un nome. In tutto il romanzo, gli unici appellativi saranno “mostro”, “demonio”, “il mio nemico” e similari, che bene sottolineano il disprezzo che circonda un essere la cui sola colpa è avere un aspetto sgradevole.  Così il mostro diventa il simbolo dell'emarginato sociale, di colui che viene respinto perché diverso, fuori dagli schemi, perché “l'altro da sé” incute sempre paura. 

Il pensiero corre ad un altro “demone” letterario, Heathcliff di “Cime tempestose”. Forse il parallelismo è azzardato ma non posso fare a meno di pensare che entrambi i personaggi siano dei “non amati” ed è il non amore che li allontana dalla loro vera natura. Heathcliff è orfano, subisce nell'infanzia vessazioni di ogni tipo e la perdita dell'unica donna (o essere umano...) che abbia mai amato, lo trasforma in un misantropo vendicativo. La creatura di Frankeinstein non ha una famiglia e viene cacciata da tutti, perfino dal suo stesso creatore, cui rivolge un ultimo, disperato appello (avere una compagna) destinato a rimanere inascoltato; l'esclusione sociale e la solitudine cui è condannato lo trasformeranno in uno spregevole omicida. L'uomo non è quindi naturalmente malvagio, non nasce tale, ma è l'ambiente in cui vive,  le persone con cui si relaziona, che ne corrompono e stravolgono la personalità. 

Ho sempre pensato che, se un libro supera l'epoca in cui è stato scritto, se i suoi personaggi e le sue tematiche assumono valore universale, se riesce a parlare al lettore moderno risvegliandone riflessioni e domande ancora attuali, si meriti pienamente la definizione di “classico”. Frankenstein, senza ombra alcuna, lo è. Ha superato la prova del tempo e non solo è uno dei migliori romanzi gotici mai scritti ma anche per certi aspetti antesignano del romanzo di fantascienza, un genere letterario che all'epoca doveva ancora nascere, nonché ispiratore continuo di trasposizioni teatrali e adattamenti (e a  volte tradimenti)  cinematografici. E l'autore, lo dico con orgoglio, è stata una donna, una giovane donna di appena 19 anni.

giovedì 14 giugno 2012

La mia nuova libreria: non solo Billy




Questa foto è stata per me una duplice fonte di ispirazione. Erano mesi che studiavo il modo per colonizzare nuovi spazi nel mio micro appartamento e per dare una casa agli amici libri sempre più numerosi. Dopo avere navigato il web in lungo, spulciato pagine e pagine di riviste di arredamento, essere sbiancata di fronte a prezzi che nessun lettore di buon senso spenderebbe per una libreria, preferendo comprare con la stessa cifra centinaia di volumi, ho iniziato a sfogliare vorace il catalogo Ikea.

Scartata la classica Billy, dal momento che cercavo qualcosa da appendere al muro, ho pensato a delle banalissime ma pur sempre funzionali mensole, senza avere un'idea precisa di come disporle. Google immagini mi ha offerto la risposta: una libreria carinissima al costo di poche decine di euro, nata assemblando le mensole Lack di due diverse misure e facilmente riproducibile con l'ausilio di un tuttofare dotato di una buona cassetta degli attrezzi e molta, molta pazienza.

La foto propone anche un quanto mai originale sistema di classificazione dei libri: per colore. La cosa farà inorridire i benpensanti: ma come si fa a ritrovare un libro? La risposta è semplice: io, i miei libri, che ho letto, tenuto fra le mani, sciupato, sottolineato, li riconosco subito, anche ad occhi chiusi, da un brandello di copertina. Pertanto non ho bisogno di disporli in ordine alfabetico o per genere o secondo chissà quale criterio. In più aggiungo che casa mia non è una biblioteca e quindi non c'è nessun bisogno di applicare chissà quale criterio di catalogazione.

La classificazione per colore mette proprio allegria, è un pezzo di arcobaleno in casa ed incuriosisce tutti. E' anche divertente vedere quali "accoppiamenti" si producono. Libri che non sarebbero mai stati vicini solo perché i loro autori hanno le iniziali del cognome troppo distanti nell'alfabeto, si trovano curiosamente accanto e l'effetto è quanto mai simpatico. Nel suo saggio "Toccare i libri", l'autore Jesus Marchamalo, dedica all'argomento un intero capitolo, intitolato "L'ordine e la disposizione". Vengono passati in rassegna diversi metodi di classificazione, ma non si fa neppure un accenno alla disposizione per colore. Forse perché troppo frivola? Troppo femminile? O forse perché si corre il rischio di essere scambiati per uno di quei non-lettori che usano i libri come oggetto di arredamento, al pari di qualunque soprammobile? Non importa cosa pensa la gente: chi ama i libri, li considera la cosa più bella di cui circondarsi e da mostrare in casa propria. E voi quale logica o non-logica seguite per disporre i vostri preziosi libri?


lunedì 11 giugno 2012

The Versatile Blogger Award


Ma che bello! Grazie, grazie, mille volte grazie! Ero assolutamente convinta che il mio blog, pochi mesi di vita e molta inesperienza da parte mia, fosse del tutto ignorato nel mare magnum dei blog più anziani e decisamente più “fighi” che popolano il web. Invece, a qualcuno è piaciuto al punto da conferirmi (che parolona!) "The Versatile Blogger Award". A farlo sono stati gli amici di Libri Pensieri, che di cuore ringrazio e di cui pubblico qui il link al loro bel blog. Le regole del premio impongono, dopo i dovuti ringraziamenti, di raccontare sette cose di sé. Premetto che non reputo me stessa un argomento così interessante, tuttavia le regole sono regole e mi adeguo:


1. Da piccola, volevo fare la maestra; sono diventata tutta un'altra cosa, non mi lamento, ma in me rimarrà sempre questo piccolo rimpianto;
2. penso che Tim Burton sia un genio e adoro i suoi film;
3. sogno di diventare mamma, non necessariamente la migliore del mondo;
4. ho una piccola collezione di segnalibri nata per caso;
5. sono del segno dell'Acquario e devo dire che mi ci riconosco;
6. solo quando nel mio balcone si è installato Silvestro, ho scoperto di amare i gatti;
7. vivo con l'uomo più meraviglioso del mondo o, come dice lui, con quello più paziente!

Ed ora l'ultima regola: conferire il premio ad altri 15 blog e comunicargli che hanno vinto. Ecco la mia personalissima selezione, in ordine assolutamente sparso:
1.
Copertine di libri, per la simpatia;
2.
Appunti di lettura, perché sottolineare libri è anche una mia fissazione;
3.
Libri in prestito, per la splendida e coraggiosa idea;
4.
Gastronomia Andreani, per la dolcezza dei post e perché è il luogo dove mi piacerebbe vivere;
5.
Zelda was a writer, perché la sua autrice è di sicuro un'anima bella.
Mi fermo qui: lo so, lo so … la regola imporrebbe molte più segnalazioni. Ma la bimba dispettosa che c'è in me, troppe regole proprio non le sopporta!



sabato 3 marzo 2012

L'amante di Marguerite Duras

"Anni e anni dopo la guerra, dopo i matrimoni, i figli, i divorzi, i libri, era venuto a Parigi con la moglie. Le aveva telefonato. Sono io. Lei l'aveva riconosciuto alla voce. (...) Era intimidito, aveva paura (...). Ma poi glielo aveva detto. Le aveva detto che era come prima, che l'amava ancora, che non avrebbe potuto mai smettere d'amarla, che l'avrebbe amata fino alla morte."
Il tempo per leggere non basta mai. Capitano settimane così piene di impegni che gli amici libri restano placidamente adagiati sul comodino per giorni e questa è una cosa che proprio non  sopporto. Ma da quando ho scoperto gli audiolibri, il tempo per la lettura si è straordinariamente dilatato. Dico la verità: non poter toccare la carta o sottolineare i passaggi più belli, è per me una limitazione. D’altra parte, il percorso casa-lavoro, tempo sprecato e spesso arrabbiato, compiuto con umore tendente al tetro, grazie agli audiolibri è diventato uno spazio tutto per me e le mie adorate scrittrici. Quindi 3 ore e 45 minuti inutilmente trascorsi in macchina, sono stati commutati nel piacevole ascolto de “L’amante” di Marguerite Duras. 

La voce pacata di Licia Maglietta è stata un’eccellente compagna di viaggio. Il tono lievemente distaccato con cui ha dato vita alle pagine della Duras rendono secondo me molto bene quel senso di estraneità con cui l'autrice, pur scrivendo in chiave autobiografica, offre la sua storia al lettore, quasi come se non della propria vita ma di qualcun'altra stesse parlando.  

La storia ci trasporta nell'Indocina Francese degli anni trenta. Il fulcro del romanzo è l’incontro  fra Marguerite, studentessa quindicenne, e un giovane miliardario cinese, da cui ha inizio una relazione controversa, osteggiata dal padre di lui e appena tollerata dalla madre di lei, destinata a chiudersi a causa dei pregiudizi legati alla differenza d’età e di condizione sociale. Tutto intorno, in un alternarsi di salti temporali che spingono la narrazione avanti e indietro nel tempo, ruota la storia della famiglia della Duras, dell’adorato fratello più piccolo prematuramente scomparso (“Quel giorno è stata la fine.”), del meschino fratello maggiore che ruba ai familiari e dilapida patrimoni (“Non era un gangster, era un mascalzone casalingo… Viveva come vivono i mascalzoni, senza solidarietà, senza grandezza, nella paura…”), del rapporto conflittuale con la madre pur tuttavia profondamente amata (“…si andava per la campagna a vedere la notte della stagione asciutta. Ho avuto la fortuna di avere una simile madre, per quelle notti”). Ho trovato molto particolare lo stile asciutto e pulito della Duras, le frasi brevi e lapidarie, le immagini che si succedono come istantanee con un ritmo meravigliosamente lento. A chi consiglio il libro? A chi cerca una storia di vero amore ma assolutamente non convenzionale e sdolcinata e soprattutto alle figlie convinte di avere una famiglia tribolata e una madre imperfetta.

venerdì 24 febbraio 2012

Venivamo tutte per mare: il mormorio delle donne giapponesi in viaggio verso l'America



"Sulla nave non potevamo immaginare che avremmo sognato nostra figlia ogni notte fno al giorno della nostra morte, e che nel sogno avrebbe sempre avuto tre anni come l'ultima volta che l'avevamo vista: una figura minuscola con un kimono rosso scuro accovacciata ai margini di una pozzanghera, incantata davanti a un'ape morta che galleggiava sull'acqua."
Fra tutti i paesi orientali, il Giappone ha sempre esercitato su di me un fascino magnetico. Naturale, quindi, leggere i libri che ne parlano. Così è avvenuto per questo poetico romanzo il cui titolo originale “The Buddha in the Attic” è stato curiosamente tradotto in “Venivamo tutte per mare”. E’ probabile che il titolo originale non sia stato considerato sufficientemente evocativo per catturare il lettore nostrano, al quale il nome dell’autrice, Julie Otsuka, suona come quello di un’ esordiente. Negli Stati Uniti, invece, “Buddha in the Attic” è considerato il seguito ideale del primo romanzo dell'autrice, uscito nel 2002, “When the Emperor Was Divine”, che è stato un autentico best seller. 

La traduzione del titolo, ad ogni modo, ha il merito di focalizzare subito l’attenzione su quelle che sono le incredibili protagoniste del libro, le donne Giapponesi che all’inizio del Novecento attraversarono l’oceano per raggiungere gli Stati Uniti, attratte, come ogni storia di emigrazione, dal miraggio di una vita migliore. Era la pratica del “matrimonio attraverso la fotografia” che rimase in vigore fino al 1921 quando, in base al Ladies’ Agreement stipulato con gli Stati Uniti, il Giappone mise fine all’emigrazione delle sue donne, destinate a diventare le spose dei compatrioti che le avevano precedute. Fino ad allora, però, la partenza delle giovani giapponesi venne incoraggiata anche da un’intensa opera di propaganda, e accettata con remissione dalle stesse donne, salvo poi scontrarsi, una volta a terra, con una realtà ben lontana da quanto promesso. 

La potenza e il fascino del libro risiedono nell'insolita ma centratissima scelta dell’autrice di non dare voce a una singola donna nello specifico, ma di lasciar parlare tutte le donne insieme. Così nel romanzo non c’è una sola protagonista, ma la piccola storia di ciascuna donna si fonde con quella di un'altra, confluendo in un percorso di vita comune. Nelle nostre orecchie si affollano potenti le voci di una moltitudine di anime i cui frammenti di storie si stratificano, pagina dopo pagina, come in un collage. Le osserviamo durante la stremante traversata dell’oceano; scopriamo la loro delusione quando si renderanno conto che ad aspettarle sono sì gli uomini delle fotografie, ma invecchiati di almeno 20 anni; avvertiamo tutta la loro fatica nei campi, mentre raccolgono frutta e verdura, perché i mariti hanno mentito non solo sull'età ma anche sulla loro condizione sociale ed economica; le osserviamo diventare madri nei modi più disparati e guardiamo i loro figli crescere e diventare cittadini americani. 

Tutto precipita il 7 dicembre 1941, quando, in seguito all’attacco di Pearl Harbor, i Giapponesi diventano "i traditori" e un profondo odio, culminato con l’Executive Order 9066, li costringe ad abbandonare case e attività per trasferirsi in campi di internamento, sperduti in luoghi deserti. Qui 120.000 Giapponesi rimarranno in condizioni di disagio e precarietà per circa 2 anni, non trovando poi più nulla al loro ritorno. E a questo punto, il mormorio delle voci si attenua fino a spegnersi: i Giapponesi sono spariti dalle città e nell’ultimo capitolo cala prepotente il silenzio.

Un ottimo libro, consigliato di cuore, dove l'approfondita ricerca storica dell'autrice, che ha riportato alla luce una pagina di storia strappata e accartocciata, si è concretizzata in immagini suggestive, di autentica e delicata poesia, in cui la parola si fa emozione viva.

martedì 21 febbraio 2012

Cime Tempestose: il primo libro del blog




"I miei dolori in questo mondo sono stati i dolori di Heathcliff, e li ho osservati e patiti tutti quanti fin dal principio; il mio più grande pensiero nella vita è lui. (...) Il mio amore per Linton è come il fogliame nei boschi: il tempo lo cambierà, lo so bene, come l'inverno cambia gli alberi. Il mio amore per Heathcliff somiglia alle rocce eterne sotto terra: ne viene poco piacere visibile, ma è necessario. Nelly, io sono Heathcliff! Lui è sempre, sempre nei miei pensieri." 

Benvenuti nel primo post del blog! Non sapevo proprio da dove cominciare e allora ho pensato a un super classico, “Cime tempestose”, che da molto tempo desideravo leggere. Ho acquistato la bella traduzione di Margherita Giacobino, edizione Oscar Mondadori, sorvolando sul pessimo gusto di chi ha deciso di imprimere in copertina la frase “I libri preferiti di Bella ed Edward” e mi sono immersa nella lettura dei suoi 34 capitoli.

Il nome della sua famosissima autrice Emily Brontë campeggia sopra al titolo, ma se fossi una lettrice vittoriana del 1847 ed avessi acquistato la prima edizione del libro, sulla copertina avrei trovato il nome di un certo signor Ellis Bell. Nascere donna nell’Inghilterra dei primi dell’Ottocento, non doveva offrire molte opportunità di realizzazione personale, a parte quella di diventare un perfetto angelo del focolare, e questo nonostante un padre reverendo, che impartì alle proprie figlie un’educazione di gran lunga superiore a quella ricevuta mediamente dalle coetanee. Ma ai tempi, scrivere era considerato “roba da uomini” e le opere delle signore non venivano prese particolarmente sul serio. Perciò, nessuna delle sorelle Brontë poté dare alle stampe un proprio libro senza prima essersi scelta uno pseudonimo maschile. 

Emily era una ragazza schiva, riservata ma anche molto coraggiosa (famoso è l’episodio in cui si curò il morso di un cane rabbioso con un ferro da stiro bollente!). Aveva pochi amici fuori dalla cerchia familiare e tutta la sua esistenza, peraltro molto breve dal momento che morì ad appena trent’anni, trascorse nella solitaria e amatissima brughiera dello Yorkshire. Questo è anche il motivo per cui molti continuano a chiedersi come abbia fatto una donna, con così poca esperienza di mondo e di persone, a tirar fuori un romanzo tanto strutturato e psicologicamente complesso. Forse chi si pone questa domanda, non conosce il potere dell’immaginazione! 

La brughiera e il suo continuo mutare con l'alternarsi della stagioni, degli eventi atmosferici o semplicemente del giorno e della notte, era tutto il mondo di Emily che ne fece la coprotagonista del romanzo. Ma a questo punto occorre un avvertimento: se siete in cerca di romanticherie e di una storia d’amore convenzionale, non sperate di trovarla nella brughiera di “Cime tempestose”! Molti si lasciano trarre in inganno da un titolo che oggi starebbe a pennello ad una soap opera e non immaginano che la storia d’amore non c’è (perché al suo posto ce n'è una d'odio), e se c’è, non è quella di Heathcliff e Catherine, ma della figlia di lei ed Hareton. Per i due infelici protagonisti, l'amore sarà solo una condanna che porterà l'una ad una morte prematura e l'altro ad una vita tormentata dal fantasma della donna amata e fondata sulla vendetta, la violenza e la crudeltà.

Certo leggere oggi “Cime tempestose” significa calarsi nella società dell’epoca, dove le differenze di status sociale connotavano fortemente le comunità  e dove l’unione dell’orfanello Heathcliff con la giovane della middle class Catherine, non era concepita neppure da loro stessi. E infatti Catherine, a dispetto della sua natura libera e ribelle, non ce la fa a violare le convenzioni sociali. Considera Heathcliff troppo degradato per sposarlo e sceglie Edgard, giovane rampollo della upper class, mossa più dall’ambizione sociale che dall’amore. 

Heathcliff non ha in sé nulla del classico eroe romantico, che di solito ha un'evoluzione, da individuo freddo e tenebroso all'inizio della storia a distillato di buone qualità alla fine. Egli, invece, è e rimane una figura sinistra, un uomo distruttivo, un misantropo mosso dalla sete di vendetta.Tutta la sua storia è un susseguirsi di crudeltà  e di violenze. Sarete  continuamente scioccati dalla brutalità  di quest'uomo e ad ogni pagina spererete in una “conversione”, che invece non arriverà mai. Forse proverete a giustificarlo in nome di un'infanzia da bambino abbandonato e di un amore mai compiuto, ma alla fine dovrete arrendervi alla sua indole malefica. E magari penserete, come me,  che l’eroe romantico è Hareton, bambino non amato, cresciuto a pane e violenza, nella più totale ignoranza, che alla fine però impara a leggere e riesce perfino a farsi ricambiare nel suo amore da colei che all’inizio lo disprezzava. 

Ai lettori vittoriani, comunque, questa storia non piacque: il libro ebbe una accoglienza freddina e vendette molto poco. Fu criticata la brutalità della storia, accusata di immoralità, non per i riferimenti alla sessualità (che sono del tutto assenti, tant'è che i figli nascono quasi dal nulla), ma proprio per la mancata redenzione di Heathcliff. 
Anche la tecnica narrativa sollevò perplessità perché i lettori dell’epoca gradivano le storie lineari, con un ordine cronologico preciso, mentre “Cime Tempestose”, con i  flashback, i piani temporali diversi e con l’introduzione del doppio narratore (che racconta ciò che un'altra persona gli ha raccontato) doveva generare parecchia confusione mentale.

A proposito di costruzione narrativa, faccio solo un piccolo accenno al  “tema del doppio”, perché lo trovo curioso e potrebbe essere un gioco divertente per i nuovi lettori ma anche per i “ri-lettori”. Tutto nel romanzo è duplice: le due case (Wuthering Heights e Thrushcross Grange), le due famiglie (Earnshaw e Linton), le due coppie di fratello e sorella, i due amori della vita di Catherine (Heathcliff e Edgar), le due Catherine (madre e figlia), i due temi del romanzo (amore e odio), le due parti in cui è divisibile la storia, ognuna dedicata ad una delle due generazioni, perfino i due colori di capelli, quelli neri dei “tribolati” (Heathcliff, Catherine, Hindley ed Hareton) e quelli biondi dei “gentili” (Edgar, Isabella, Cathy). Ma chissà  quanti altri se ne possono trovare! 

Dicono che gli uomini non leggano “Cime tempestose” eppure ho due elementi per smentirlo. Il primo sono le parole di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, che trovo una delle più belle critiche scritte a proposito del libro e che trascrivo sotto.  Il secondo è un sito, molto ben fatto, interamente dedicato al romanzo, pieno di curiosità e chicche come l'albero genealogico del romanzo. Un sito che, dopo averlo navigato in lungo e in largo, ho scoperto, pensate un po’, essere stato interamente scritto da un uomo! Buona lettura!
"Emily Brontë, l'ardente, la geniale, l'indimenticabile, l'immortale Emily. Non scrisse che pochi versi, brevi liriche, aspre ferite, alla cui malia non si sfugge. E un romanzo, Cime tempestose, un romanzo come non se ne ne sono mai scritti prima, come non saranno mai scritti dopo. Lo si è voluto paragonare a King Lear. Ma veramente, non a Shakespeare fa pensare Emily, ma a Freud; un Freud che alla propria spregiudicatezza e al proprio tragico disinganno unisse le più alte, le più pure doti artistiche. Si tratta di una fosca vicenda di odi, di sadismo e di repressse passioni, narrate con uno stile teso e corrusco, spirante, fra i tragici fatti, una selvaggia purezza. Il romanzo romantico, se mi consentite il bisticcio, ha qui raggiunto lo zenith." (Giuseppe Tomasi di Lampedusa)